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 2018  gennaio 29 Lunedì calendario

Italia 2018 : l’ascensore è congelato. Viaggio di Federico Fubini in un Paese senza mobilità sociale, dove resti quel che nasci

Nel 1427 un capofamiglia fiorentino, Manno Mannucci figlio di Benincasa, discendente di un soldato di ventura tedesco sbandato in Toscana durante le incursioni di Federico Barbarossa, si dichiarò al catasto come artigiano del legno. Sei secoli dopo, nel «laboratorio di un quartiere di Firenze che sta dolcemente invecchiando», il suo discendente Fabio Mannucci fa più o meno lo stesso lavoro: il restauratore. Forse tra gli arredi medievali che sono passati dalle sue mani ce n’è qualcuno intagliato dal suo avo. Nel 1427 il patrimonio finanziario e immobiliare dei Mannucci – 4 nuclei familiari, 21 persone – arrivava a 437 fiorini, pari a circa tredici anni di lavoro di un manovale, circa di un terzo superiore alla mediana delle famiglie fiorentine. «Nell’anno di imposta 2012, fra i contribuenti di Firenze compaiono 149 Mannucci e il loro reddito dichiarato in media è di 31.775 euro: un quarto sopra la media cittadina, ovvero più o meno esattamente dov’era il patrimonio dei Mannucci rispetto al patrimonio mediano dei fiorentini sei secoli fa. Erano e restano solidamente ceto medio».
Il caso dei Mannucci non è isolato. Incrociando redditi e patrimoni degli 807 cognomi che compaiono sia nel catasto della Firenze del 1427, sia nelle dichiarazioni dei redditi della Firenze del 2012, si nota che quasi nulla è cambiato. I ricchissimi sono rimasti ricchissimi; i ricchi, ricchi; il ceto medio, medio; i poveri, poveri; i poverissimi, poverissimi. Tre dei primi cinque contribuenti della Firenze di oggi appartengono alle famiglie più in vista nella Firenze dell’inizio del Rinascimento; e le famiglie dei cinque contribuenti oggi più poveri facevano già parte della metà meno abbiente della popolazione. Conclude Federico Fubini: «Non si rischia di scendere quando si parte da sopra, non si riesce a salire quando si parte da sotto».
Ecco spiegato il sottotitolo di questo bellissimo libro, in cui Fubini esercita il suo talento, ben noto ai lettori del «Corriere», di dare carne e sangue all’analisi economica attraverso le storie delle persone: Perché in Italia resti quello che nasci. Il titolo del saggio, che Mondadori manda domani in libreria – La maestra e la camorrista – evoca invece un’inchiesta condotta in Campania, tra Carbonara, il quartiere più giovane di Napoli, e Mondragone, provincia di Caserta, uno dei paesi più poveri d’Italia. Sono pagine che offrono moltissimi spunti. Almeno due vanno anticipati: l’immagine tenera e straziante del bambino di tre anni che il padre ha fatto sedere sul manubrio dello scooter usato per un maldestro scippo (riconosciuto grazie alle telecamere, l’uomo va in galera mentre il bimbo inconsapevole ride divertito: «Ho fatto ‘a rapina co’ babbuccio!»); e il parallelo fra i test sui ragazzi di Mondragone e quelli effettuati in una scuola di Padova, al liceo Parini di Milano, al collegio Ghislieri di Pavia. La grande differenza tra la scuola dei poveri e quella della borghesia del Nord è il tasso di fiducia. Sottoposti a un questionario, al principio «non fidarsi mai degli altri» i giovani del litorale domizio (la zona più bella e ricca al mondo ai tempi dei Romani) danno oggi un voto medio di 8,1; il 40% assegna un 10 pieno; solo uno su cinque dissente. A Padova soltanto il 5% assegna un 10; a Milano appena il 3,5. Conclude Fubini: «In sostanza, più sei immerso in un contesto di successo, più ti fidi. E viceversa. Il successo nutre la fiducia e la capacità di fidarsi nutre il successo. Diffidare invece secerne la tossina della paralisi». Purtroppo, Mondragone è la regola, il Parini è l’eccezione.
Ovviamente l’Italia ha vissuto nella sua storia anche fasi di mobilità sociale; ad esempio la ricostruzione e il boom economico. Ma sono fasi relativamente lontane nel tempo, di cui all’epoca della rete non si ha più memoria. E «quando l’ascensore sociale si congela in una glaciazione semipermanente, le persone smettono di crederci. Smettono di credere agli altri. Non ci si fida più, si finisce per convincersi che la vita sia un gioco a somma zero nel quale ogni fiorino, ogni briciola, ogni centimetro di terreno di guadagno è sempre un fiorino, una briciola, un centimetro sottratti a qualcun altro». L’idea di poter crescere insieme non sfiora nessuno; e di conseguenza nessuno cresce. Quando è così, prosegue Fubini, «le persone si convincono che è più sicuro trasferire le risorse fuori dall’azienda e verso il nucleo duro della famiglia». L’accumulazione patrimoniale diventa così «una virtù ambigua. Inocula conservatorismo e stasi anziché investimento e dinamismo; secerne autoprotezione al posto dell’audacia, nuova immobilità sociale e dunque ancora meno fiducia degli uni negli altri. Più che una virtù, può diventare un incanto dal quale è difficile svegliarsi».
Attraverso altre storie, altre ricerche, altri studi, si arriva a una diagnosi spietata del grande malessere italiano, segnato da tre forze silenziose. Prima: la ricchezza patrimoniale di milioni di famiglie, che non fidandosi degli altri, del futuro e in fondo di se stesse non investono, non spendono, ma accumulano ed estraggono la ricchezza dal loro stesso risparmio ( La Repubblica patrimoniale era un titolo di studio del libro, e sarebbe stato altrettanto efficace anche se meno evocativo). Seconda: la povertà demografica del Paese che fa meno figli al mondo, una tragedia collettiva che dovrebbe essere al primo posto dell’agenda politica alla vigilia delle elezioni. Terza: «la fragilità culturale evidente in una proporzione di diplomati e laureati fra le più basse dell’Occidente», che spiega anche la debole produttività e la scarsa propensione a migliorare la propria condizione. Come se tra imprenditori e sindacati, tra la pubblica amministrazione e i suoi dipendenti, tra lo Stato e gli insegnanti fosse stato stipulato un tacito patto: io ti do poco, e ti chiedo poco. Questo meccanismo perverso spiega non solo una crescita che rimane bassa, ma anche l’insoddisfazione, la frustrazione, quel senso di inutilità dei propri sforzi che sfocia nel lamento più che nella protesta, nell’inanità più che nella rivolta. Ecco che l’inchiesta di Fubini diventa anche una dichiarazione d’amore a un Paese che si vorrebbe profondamente diverso, più giusto non in quanto assistenziale ma in quanto più ricco di opportunità per i meritevoli, ma che resta pur sempre il nostro e per altri versi meraviglioso Paese.