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 2018  gennaio 29 Lunedì calendario

«Sulla Fiat Agnelli mi disse: quando sarò morto la venda De André? Lo sottovalutai». Intervista a Paolo Fresco

Avvocato Paolo Fresco, cosa provò quando Gianni Agnelli le chiese di prendere il suo posto? 
«Da decenni ero in adorazione di Gianni Agnelli, e lo ero ancora negli anni Novanta, quando divenni il secondo manager più importante al mondo. Anzi, per alcuni mesi fui il più potente: Jack Welch, presidente di General Electric, dovette cedermi temporaneamente le redini per un intervento cardiaco. Ma Agnelli era inarrivabile: non erano i soldi, non era il potere, era la sua vita inimitabile. Mi fece contattare dai cacciatori di teste Egon Zehnder offrendomi una posizione di vertice in Fiat. Risposi di essere lusingato, però ero impegnato in progetti importanti. Dovevo inoltre aspettare di compiere 65 anni per incassare il “premio di fedeltà” dalla GE».
Quando l’Avvocato compì settant’anni nominò presidente Cesare Romiti...
«Salvo tornare alla carica con me quando anche Romiti si avvicinò ai settanta. Mi richiamarono gli headhunters e io reagii con un po’ di strafottenza: l’Avvocato mi conosce – dissi – se ha bisogno mi chiami pure. Lui capì, alzò la cornetta del telefono e io mi precipitai a Torino. Così cominciarono i guai».
Guai? Non era quello che desiderava?
«Amministratore delegato era Paolo Cantarella: avevamo le stesse deleghe. Lui immaginava di poter fare come Romiti. Io credevo di essere stato chiamato con il ruolo operativo che ha un presidente negli Usa. L’atteggiamento di Cantarella mi turbava perché sembrava volermi isolare dal resto dell’azienda. Se chiamavo un dirigente, lui imponeva che passasse prima e dopo dai suoi uffici per riferire. Andai dall’Avvocato e gli chiesi di scegliere; mi disse di aspettare sei mesi. Alla fine mi concentrai su ciò che sapevo fare meglio e che aveva favorito la mia ascesa in General Electric».
Sviluppare il business, immagino?
«Negoziare. Individuare azioni strategiche e poi trattare ottenendo il massimo dalla controparte. In America ero il migliore».
È così che trasformò General Electric in prima multinazionale del mondo? Negli anni Ottanta la chiamavano Mr Globalization.
«Si deve tutto a Jack Welch: favorì, nonostante l’opposizione di molti, la mia idea. Gli americani erano provinciali, credevano si dovesse competere solo con l’azienda della porta accanto. Io sostenevo che il mondo si era messo in moto: i nostri concorrenti erano Siemens, Rolls Royce. Erano loro a sottrarci quote di mercato. Quando Welch mi diede il via libera, da prima azienda americana ci trasformammo in leader mondiale». 
Torniamo a Fiat: quale fu la sua strategia?
«Proposi all’Avvocato di vendere Fiat Auto. “È la cosa giusta” disse “ma il nonno si rivolterebbe nella tomba. Lo faccia quando sarò morto”. Testuali parole: “Per ora cerchi un’alternativa che sia progressiva”. Cominciai una trattativa con i tedeschi di Mercedes Benz: offrivano 10 miliardi di euro, noi ne chiedevamo 12. A quel punto portai il presidente di Daimler, Jürgen Schrempp, a New York dall’Avvocato. Quando uscimmo, Schrempp disse: “Non ho superato la prova”. Agnelli non riusciva a entrare in sintonia con i tedeschi». 
Quindi tutto da rifare?
«Qualche tempo prima mi avevano cercato da General Motors. Li richiamai e giocai il tutto per tutto: stiamo chiudendo a 12 miliardi con i tedeschi, firmiamo tra 15 giorni, avete qualcosa da proporci? Dissero che 12 miliardi andavano bene ma preferivano partire rilevando il 20%. Risposi che la proposta mi allettava, perché l’Avvocato auspicava una soluzione graduale. Però dovevano darmi garanzie. Si rifiutarono, ma i tempi erano stretti e alla fine accettarono la fatidica clausola: a richiesta di Fiat, sarebbero stati obbligati a comprare il restante 80%».
Con quella «trappola», pardon, garanzia, lei ha salvato la Fiat...
«No, la Fiat l’ha salvata Sergio Marchionne. Diciamo che io gli ho fornito uno strumento efficace. Quando la nostra posizione sul mercato si deteriorò, Marchionne negoziò la rinuncia alla clausola ottenendo in cambio una penale salatissima e la restituzione gratuita del 20% delle azioni. Avrei tentato di farlo anch’io, ma l’Avvocato era morto e avevo ritenuto opportuno dimettermi».
Perché precisa: «Opportuno»?
«Era giunto il tempo di Umberto Agnelli. Che non mi amava. Quando l’Avvocato era già malato tentò un golpe: riuscii a sventarlo grazie a una manina gentile che fece pervenire alla stampa il piano architettato per farmi dimettere durante un Cda già convocato». 
Qual era il piano? E la gentile manina?
«Sulla manina non avrà da me altre informazioni. Quanto al piano di Umberto, metteva in campo l’uomo dei fallimenti, l’Enrico Bondi che poi si sarebbe occupato di Parmalat. Ottimo professionista, ma con la fama di risanare le società facendone pagare i costi ai creditori. Il giorno del tentato golpe imparai due lezioni: a non fidarmi dei giornalisti e che, comunque, alla fine è meglio dire quello che si pensa».
Mi spieghi meglio.
«Mi chiamò Ezio Mauro, direttore di Repubblica. Solo per avere un background, garantì: non avrebbe scritto nulla di ciò che gli confidavo. Non mi trattenni. Il giorno dopo lessi tutto sul giornale. Il titolo era: “Io rispetto i diritti di tutti ma l’arroganza m’offende”. Chiuse l’articolo con una mia battuta su Berlusconi, così anche Silvio mi tolse il saluto. Ma sa cosa le dico: alla fine Mauro mi ha fatto un favore, mi sono tolto tanti pesi dallo stomaco e quell’articolo l’ho incorniciato». 
Ne ha fatta di strada il ragazzo di Genova che andava a scuola con Paolo Villaggio...
«Sono nato a Milano, poi papà venne trasferito a Genova. Mi iscrissero al liceo classico Andrea Doria. Paolo Villaggio è stato mio compagno di classe per cinque anni; avevamo costituito una bella combriccola, quelli della “terza E”. Lì ho conosciuto Gino Paoli, Tenco lo frequentavamo poco, a volte si aggregava Umberto Bindi, quello di Arrivederci, uno sfigato. Più tardi – era più giovane – si aggiunse Fabrizio De André. Ci vedevamo soprattutto d’estate in Sardegna. Era molto legato a Paolo, ma passavano il tempo a litigare. Due ego spropositati, soprattutto Fabrizio: bizzarro, aggressivo, iconoclasta. Confesso di non averlo capito. Adesso quando sento le sue canzoni mi rendo conto del suo genio, ma allora era solo uno che suonava la chitarra, che dovevi pregarlo un quarto d’ora perché cantasse e due ore perché smettesse. Si accapigliava con Villaggio perché erano uguali: avevano il demone di voler piacere al grande pubblico. Davanti alla bara di Faber, Paolo mi disse: “Se avessi la garanzia di avere anch’io un funerale come quello di Fabrizio morirei subito”».
Mai tentato dalla carriera artistica? 
«All’esame di Diritto commerciale il prof mi diede 30 ma mi consigliò di fare il cantante. Avevo però un altro fardello sulle spalle...».
Fardello?
«Mio fratello maggiore morì in un incidente ferroviario nel ’43. Andava a Milano con papà per iscriversi all’università. Il convoglio che li precedeva era stato mitragliato e si era fermato. Quando sopraggiunsero, andarono a sbattere e vi furono due morti. Da allora mi sentii dire che dovevo dare ai miei genitori anche le soddisfazioni che si aspettavano da Gigi. Per fortuna l’ho presa come una missione. Cominciai a lavorare a Genova nello studio Lefebvre d’Ovidio e poco dopo mi trasferii a Roma. Tornai a Genova nel 1962 come legale della CGE, una società controllata da General Electric e partecipata da Fiat. Lì cominciò il mio futuro».
Che effetto faceva la grande America al ragazzo di Genova?
«Facevo incontri importanti restando sempre un po’ ingenuo. La prima volta che vidi Bill Clinton sembrava fossimo amici di lunga data: sapeva tutto di me. Tornai da Welch, glielo dissi orgoglioso, e lui si mise a ridere: “Gli hanno letto il tuo curriculum e lui te l’ha recitato”. La volta successiva, il Presidente mi chiese un parere. Prese nota: “Interessante”. Quando lo raccontai, altra risata: “Ha gettato nel cestino l’appunto appena sei uscito”».
Ma il più grande incontro, mi pare di capire, fu con Marlene, sua moglie...
«Perdoni, ma non riesco a parlarne senza commuovermi. L’ho conosciuta a Roma, nel 1959, e ho avuto con lei una storia durata due giorni. Quando ci siamo rincontrati a New York nel 1965, né io né lei ci ricordavamo di quell’avventura. A dire il vero io sì, perché mi era subito parsa la donna più bella del mondo. Però avevo capito male il suo nome: l’amore fugace di Roma si chiamava Marlene, la ragazza di New York Jacqueline. La seconda volta che ci incontrammo precisò che il suo nome era Marlene, e allora mi tornò in mente tutto: non dissi nulla, giocai per un po’ e la feci sentire in colpa. Non ci siamo più lasciati fino a che l’ho persa. Quando mi dissero che aveva il parkinsonismo tirai un sospiro di sollievo. Ma il medico disse di non farmi illusioni: era un cugino del Parkinson persino più cattivo. Ora le sue ceneri sono lì, in quella torretta del giardino che da qui, Fiesole, domina Firenze. Quando riuscivamo ancora a parlare avevamo deciso di devolvere parte della nostra ricchezza agli altri: 25 milioni di dollari. Quei soldi ora servono a chi studia come combattere la malattia che me l’ha portata via».