Corriere della Sera, 29 gennaio 2018
Andreotti e la mafia, una verità stravolta nell’Italia inerte
Si parte da una bugia, anzi uno «stravolgimento della verità»; una «molto efficace attività di manipolazione dell’informazione che ha portato buona parte degli italiani a credere, ancora oggi, che Giulio Andreotti sia stato totalmente felicemente assolto» dall’accusa di mafia. Non era e non è così, giacché modificando il verdetto di primo grado sul sette volte presidente del Consiglio, la corte d’appello di Palermo ha dichiarato di «non doversi procedere in ordine al reato di associazione per delinquere commesso fino alla primavera del 1980, estinto per prescrizione». Assoluzione confermata, invece per il resto delle contestazioni, poggiate su prove «mancanti, insufficienti o contraddittorie», secondo la formula del codice. Tuttavia nelle motivazioni della sentenza di secondo grado è scritto che l’ex capo del governo «ha consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi».
Il giudizio che ha reso definitive queste valutazioni risale al 2003, 15 anni fa. L’indagine era cominciata dieci anni prima, nel 1993, un quarto di secolo fa. Andreotti è morto nel 2013, cinque anni fa. In tutto il tempo trascorso le considerazioni su assoluzione e prescrizione sono state fatte e sviscerate ripetutamente. Perché allora tornarne a parlare? E perché due magistrati protagonisti di quel processo, l’ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli e l’ex aggiunto Guido Lo Forte, hanno deciso di scrivere un libro-pamphlet intitolato addirittura La verità sul processo Andreotti (editore Laterza, pagg. 120, euro 12)?
La risposta dei due magistrati oggi in pensione è che, oltre a voler ribaltare la vulgata dell’assoluzione piena, di fronte a ciò che la loro inchiesta e poi i dibattimenti hanno portato alla luce, l’Italia ha perso un’occasione. Che pesa tuttora. Anziché riflettere e trarre insegnamento dalle scoperte sui rapporti tra mafia e politica, il Paese ha preferito rallegrarsi con se stesso e con l’imputato per lo scampato pericolo di aver avuto un governante così potente e longevo, uomo-simbolo della cosiddetta Prima Repubblica, colluso con i boss; sollievo mal riposto, ma così è stata rappresentata la conclusione della vicenda giudiziaria da gran parte del talk-show televisivi e dell’informazione. Mentre tutto ciò che il processo conteneva e aveva svelato in ordine alle relazioni pericolose potere e criminalità, tra pubblica amministrazione e malaffare, è passato in secondo piano, se non completamente ignorato.
Per Caselli e Lo Forte il processo Andreotti è un paradigma dell’intreccio tra Cosa nostra e i rappresentanti delle istituzioni a tutti i livelli (non solo i più alti, come nel caso specifico); la dimostrazione dell’esistenza di quel «poli-partito della mafia» trasversale evocato dal generale dalla Chiesa che probabilmente esiste ancora e s’è di nuovo inabissato, ma continua a determinare molte decisioni e condizionare la vita pubblica. Quello che è stato ritenuto provato anche dalla sentenza che in primo grado aveva determinato l’assoluzione tout court dell’imputato sui rapporti di Andreotti con i cugini mafiosi Nino e Ignazio Salvo, l’onorevole Salvo Lima, il bancarottiere Michele Sindona e su altre vicende, indica fin dove può arrivare l’infiltrazione mafiosa nella politica e nell’economia. Inquinamenti che fino alle stragi del ‘92 sono rimasti sommersi e pressoché impuniti, dopo non più. Proprio grazie al processo Andreotti, rivendicano Caselli e Andreotti. Ma l’Italia non ha saputo approfittarne, e invece di prenderne atto e almeno provare a voltare pagina, ha preferito assistere inerte all’attacco nei confronti dei magistrati che quel processo hanno avviato e portato avanti, accusano i due ex procuratori. Com’era successo con Falcone e Borsellino dopo il maxi-processo.
Ma al di là dei paragoni resta l’occasione mancata di guardarsi allo specchio e cercare il modo di spezzare definitivamente certi legami, anziché far finta che non siano mai esistiti. In un Paese dalla memoria corta, ora c’è un piccolo libro che aiuta a ricordare.