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 2018  gennaio 28 Domenica calendario

«Nessun mistero su Tobagi. Tutto chiarito già 30 anni fa Il resto è solo dietrologia»

L’omicidio di Walter Tobagi del 28 maggio 1980 è un atto terroristico di cui tutto si sa e intorno al quale non esistono misteri e reticenze. Purtroppo però, a distanza di quasi 38 anni da quella tragedia, c’è ancora qualcuno che ne parla come di un caso di giustizia negata, adducendo ragioni prive di qualsiasi fondamento. Queste «verità alternative» sono state tutte propalate dopo la morte del generale dalla Chiesa: con lui vivo nessuno avrebbe avuto il coraggio di accusarlo, insieme ai suoi uomini, di incapacità e reticenza. 
Due settimane fa in una conferenza stampa, con il supporto di un giudice che non si è certo occupato dell’omicidio Tobagi, è stata di nuovo rimessa in circolo la storia secondo cui un confidente (detto «il postino») avrebbe preannunciato ai carabinieri – rimasti inerti – il progetto di omicidio di Tobagi rivelando i nomi di chi lo avrebbe eseguito, i carabinieri avrebbero occultato tali confidenze per nascondere la propria incapacità di prevenirlo, e la Procura di Milano li avrebbe in qualche modo coperti. La verità è però un’altra: né «il postino» né alcuna delle persone da lui nominate ebbero un qualche ruolo nell’attentato o seppero alcunché dell’azione in preparazione. 
Tutto questo «il postino» in persona spiegò dettagliatamente già nel giugno del 1985 nel processo d’appello, quando era ormai emerso il suo ruolo di confidente. E la sentenza del 7 ottobre del 1985 fece giustizia di ogni ipotesi fantasiosa, negando ogni possibile mistero sulla tragica fine di Tobagi, così come l’esistenza di mandanti dell’omicidio e di notizie confidenziali che lo avessero preannunciato. Alla stessa conclusione pervenne in altra inchiesta la Procura di Milano, che già nel dicembre dell’83 aveva emesso due comunicati stampa per fare luce sulla vicenda. Le vicende descritte furono riprese ed amplificate da un giornalista che intervistò per il periodico Gente, nel 2004, il brigadiere «Ciondolo» che interloquiva con il confidente: il giornalista e il brigadiere vennero condannati dal Tribunale di Monza (rispettivamente nel 2007 e nel 2008) per diffamazione nei confronti degli ufficiali dei carabinieri da loro accusati di omissioni ed inerzia. La due condanne vennero confermate nel 2009 dalla Corte d’Appello di Milano e poi dalla Cassazione. 
Ora il giornalista attende la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, cui ha fatto ricorso avverso la sua condanna, mentre commentatori vari (compreso il Presidente della Federazione Nazionale della Stampa) invocano a suo sostegno la tutela del diritto di cronaca e di critica. Senonché qui si discute di altro, cioè della falsità o meno di certe affermazioni posto che i diritti in questione presuppongono la verità dei fatti da cui traggono spunto, verità negata dalla Corte d’Appello di Milano che, condannando il giornalista, gli attribuì «evidente volontà di comunicare fatti e circostanze scandalistici come l’unica verità senza dare conto di altra verità accertata giudizialmente in via definitiva, che pure era a sua conoscenza». Ma gli italici cultori della dietrologia non saranno mai disposti ad accettare verità troppo lineari, forse per qualcuno banali, che però rendono onore al ricordo della statura professionale ed umana di vittime del terrorismo come Walter Tobagi. 
A noi piace invece ricordare un motto che i giornalisti inglesi usano per stigmatizzare quei loro colleghi che rifiutano di accertare/accettare il reale andamento dei fatti pur di non indebolire le loro fantasiose ipotesi: «Non permettere ai fatti di rovinare una bella storia!».
(Su Corriere.it la versione integrale dell’intervento)