Corriere della Sera, 28 gennaio 2018
Un’ambulanza imbottita di esplosivo. La firma dei talebani: Kabul assediata
L’ambulanza corre a sirene spiegate nel traffico caotico del centro. Cerca di accelerare. Ma viene rallentata dagli ingorghi. È sabato a mezzogiorno a Kabul, la città freme di attività come sempre dopo il venerdì di festa. L’autista guida lungo i labirinti di alti muri grigi anti-bomba, si avvicina alla «zona verde», che di recente è stata rafforzata con casematte e sensori elettronici per sventare gli attentati alle ambasciate straniere. Giunge a quella della rappresentanza europea. Viene fermata dai poliziotti al posto di blocco con il mitra in mano. Ma dall’abitacolo gridano che hanno un caso grave da trasportare con urgenza al vicino ospedale Jamhuriat. Gli agenti annuiscono, l’ambulanza passa veloce. Supera «Chicken Street», il quartiere dove si trovano negozietti di tappeti e anticaglie. Nei pressi dell’edificio del ministero degli Interni viene rallentata da un secondo posto di blocco, sono soldati delle squadre speciali. Non si passa. Allora il conducente si rivela per quello che in effetti è: un terrorista kamikaze freddo e determinato nella fase suprema della sua missione mortale. Neppure un secondo, preme il pulsante dell’innesco sul cruscotto e i centinaia di chili di tritolo nascosti a bordo deflagrano con effetti terrificanti. Una nuvola di fuoco preceduta dal vuoto d’aria devasta la strada, getta a centinaia di metri macerie, schegge di ferro, vetri infranti e carcasse d’auto. Al fracasso del disastro si mischiano le urla dei feriti, il panico di chi scappa. Ieri sera, oltre dieci ore dopo l’esplosione, il numero delle vittime era ancora provvisorio: sono comunque segnalati almeno un centinaio di morti e circa 160 feriti, in maggioranza civili.
Kabul è in lutto. Solo una settimana fa la sua popolazione aveva assistito impaurita e impotente per 15 ore alla battaglia con sei talebani asserragliati nell’Hotel Intercontinental, che aveva lasciato sul terreno almeno 22 morti. E il 28 dicembre si erano contate una quarantina di vittime per l’attentato contro un centro culturale sciita. Prima e dopo i fatti di sangue sono stati continui, quasi quotidiani, comprese le aggressioni contro le agenzie umanitarie internazionali, gli uffici governativi e le sedi della polizia locale. Ciò per sottolineare che da anni ormai la capitale afghana, come molte delle province, è vittima della violenza. Secondo l’agenzia locale delle Nazioni Unite (Unama), nei primi nove mesi del 2017 in tutto il Paese sarebbero stati registrati per azioni di guerra 2.640 morti e 5.397 feriti.
Ora però l’entità dell’attentato è inusuale. Pare anche più tragico del camion kamikaze che lo scorso 31 maggio causò a Kabul la morte di 92 persone e il ferimento di 500. La lettura più diffusa di questo accanirsi contro i civili è che il braccio di ferro con i talebani sia aggravato dalla presenza di Isis, che almeno dai primi mesi del 2015 opera stabilmente in Afghanistan e nelle «Zone Tribali» pakistane. Ieri i portavoce talebani che hanno rivendicato la paternità dell’operazione. Ma ancora più preoccupante si rivela la reazione del governo e degli apparati di sicurezza. L’esercito afghano, formato dalla missione Nato-Isaf dopo l’invasione del 2001, ha assunto il comando delle operazioni solo nel dicembre 2014. Ma oggi pare controlli appena il 50 percento del territorio. Kabul appare sempre più come una capitale isolata, assediata, da cui si può viaggiare in sicurezza solo con gli aerei. Tra le cause del disastro, l’incapacità dei politici di risolvere le faide interne e la corruzione. Quasi quattro anni dopo le elezioni del 2014, il presidente Ashraf Ghani resta nemico di Abdullah Abdullah, che nella carica di Capo dell’Esecutivo dovrebbe coadiuvarlo, ma in realtà non perde occasione per remargli contro. I militari obbediscono ai capi tribali. Di recente le milizie del vicepresidente Abdul Rashid Dustum si sono scontrate con quelle del politico uzbeko Ahmad Ischi.
«Questi atti sono contro la riconciliazione», ha dichiarato l’alto rappresentante Ue Federica Mogherini Nell’inefficienza dello Stato la violenza non può che prosperare e rischia di pregiudicare le elezioni del 7 luglio.