Corriere della Sera, 28 gennaio 2018
Se i condottieri rinnegano l’arte della guerra
Leggendo anni fa un saggio sui soldati di professione, detti altrimenti mercenari, fummo colpiti dal capitolo dedicato alle compagnie di ventura italiane, dove si raccontavano cose senza dubbio notissime agli appassionati di storia militare, ma che a noi parvero stupefacenti, mirabolanti. L’autore (un inglese) spiegava che nel Quattrocento gl’italiani erano diventati i maestri indiscussi nell’arte della guerra; per chiunque in Europa praticasse il mestiere delle armi era indispensabile aver militato sotto le bandiere di un Condottiero di rango. Come esempio supremo della perfezione raggiunta dai Condottieri nella loro specialità, lo studioso citava il caso di due di essi che si affrontarono tra i colli dell’Italia centrale e per due giorni misero in atto tutto il loro repertorio di astuzie e tranelli per spiazzarsi e sorprendersi a vicenda. Marce e contromarce, finte e controfinte, mosse subito intuite e parate da altre mosse ancora più raffinate e fantasiose. Finalmente uno dei due riuscì a chiudere l’altro in una posizione impossibile, perdente.
Ma invece di attaccare l’avversario ormai nettissimamente svantaggiato, il primo mandò al secondo un’ambasciata: «Tu sei esperto quanto me, abile quanto me, ragionevole quanto me e a questo punto avrai capito benissimo che per il tuo esercito non c’è scampo, sarò sicuramente io a vincere. E allora, che senso ha combattere? Dichiarati sconfitto a priori, e eviteremo un inutile massacro».
La lucida proposta fu lucidamente accettata. La battaglia non ebbe luogo. I due condottieri si salutarono cerimoniosamente e si separarono, ciascuno alla testa delle sue ferree e intatte schiere.
Il sublime episodio ci è tornato in mente varie volte in queste giornate pre-elettorali. Nel modo sotterraneo, ineffabile, indimostrabile in cui agiscono le tradizioni di un popolo, è possibile – ci chiediamo – che quella geniale e incruenta forma di guerra sia filtrata fino alle segreterie dei moderni partiti politici italiani?
Lo spettacolo è invero straordinario, unico nel suo genere: prima della battaglia tutti trattano esclusivamente di come si schiereranno dopo. Tu poi allora ti metti con me; no, io sto pensando di mettermi con lui; state attenti che se non mi volete con voi, io mi metto con loro; con che diritto pretendi che lui si metta con te, quando sono io che gli ho promesso di mettermi con lui?
Staffette, messaggeri, aiutanti galoppano da un accampamento all’altro recando dispacci enigmatici. Non si vede all’ingiro una sola postazione fissa, un obiettivo riconoscibile. Qua si scava una trincea, che l’indomani è deserta. Là si appresta un bastione che nella notte viene abbandonato.
Il cittadino assiste sempre più perplesso a queste fluide evoluzioni e compenetrazioni. Chi è nemico di chi? Chi si batte per che cosa? La sua impressione è che, in base a programmi fatti di nulla, gli si chieda di eleggere una nullità a governare il nulla. Ma è un’importante verifica!, gli mandano a dire da un alfiere trafelato.
Sarà. Da anni il cittadino sente parlare di «verifiche», si è anzi a poco a poco rassegnato all’idea che la vita politica italiana sia tutta una verifica. Finora però credeva ancora che le elezioni fossero una forma di verifica superiore, una verifica, per così dire «vera», cui si ricorreva quando le snervanti pseudo-verifiche settimanali o quotidiane non davano più nessun risultato.
Ma ora, contemplando le diverse milizie che percorrono da destra a sinistra e da sinistra a destra l’arido terreno elettorale, egli si pone una domanda che lo turba. Se questi mobilissimi avversari sono già più che persuasi di doversi rimettere insieme dopo la battaglia; se ciò che realmente conta e pesa e influisce e determina non sembra più essere l’esito della battaglia stessa bensì i patti, gli accordi, gli ammicchi intercorsi tra gli avversari in vista della medesima, a che scopo, allora, combatterla? Perché non decidere alla vigilia della pugna, che la pugna non ci sarà? A’ la non-guerre comme à la non-guerre!
La possibilità ormai concreta di una simile omissione fa pensare ai più pessimisti che il nostro sistema politico sia giunto al termine del suo ciclo. Quando le elezioni diventano di fatto superflue (non hanno il potere di cambiare nulla, tutto essendo contrattato e stabilito in anticipo tra i Condottieri) ci vuol poco perché anche gli elettori arrivino a «sentirle» come non necessarie; e a quel punto non ci vuol molto perché qualche Supercondottiero decida realisticamente di sopprimere la finzione, tra il plauso generale.
Le elezioni non servono più a niente? Ma appunto! Quale altro Paese è in grado di offrire ai cittadini un rito così mirabilmente gratuito, una gestualità così depurata di ogni senso, un certame che è pura rappresentazione, puro teatro? Sarebbe follia non approfittarne un’ultima volta, negare il biglietto d’ingresso (il voto) a tanti volenterosi, meravigliosi attori! Tanto più che questa potrebbe anche essere la loro serata d’addio.