Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2018
Intervista a Silvio Garattini: «Un farmaco su due è di troppo»
«Bisogna riconoscere che abbiamo fallito. La comunità scientifica italiana ha mancato l’obiettivo di far diventare la ricerca una priorità nell’agenda del Paese. Io me ne assumo, per la mia parte, la responsabilità», dice Silvio Garattini.
Il più ingeneroso dei giudizi, Silvio Garattini, bergamasco, 90 anni a novembre, farmacologo insignito delle massime onorificenze dalla comunità scientifica internazionale, lo esprime nei confronti di se stesso. Quasi un modo inconscio per garantire l’opinione pubblica sulla correttezza dei giudizi al vetriolo che ha dato nell’ultimo mezzo secolo: provenivano da un uomo capace di non farsi sconti. Forse il modo più trasparente per lasciare, dopo 55 anni, la direzione dell’Istituto farmacologico Mario Negri, il centro di ricerca da lui fondato a Milano nel 1963 grazie alla donazione di un commerciante. Oggi il Mario Negri è una fondazione finalizzata alla ricerca biomedica che non brevetta le proprie scoperte. Ha tre sedi, due a Bergamo e una a Milano, e si avvale della collaborazione di circa 500 ricercatori. La sua principale fonte di finanziamento sono i bandi pubblici che in nessun caso possono superare il 10% del bilancio annuale. Garattini ha deciso che a metà 2018 passa la mano. «Se il consiglio d’amministrazione lo ritiene, potrei rimanere con un incarico di rappresentanza. Ma vorrei andarmene lasciando le cose in ordine. Alla mia età ogni giorno in più è un regalo», dice abbassando il tono della voce.
Lo studio di Garattini è ampio e luminoso, la grande scrivania è davanti alle vetrate che danno sul prato brinato del cortile d’ingresso del Mario Negri. In lontananza si intravedono gli edifici in acciaio e cemento del Politecnico di Milano, distaccamento di Bovisa, ex periferia degradata della città. Nella stanza quasi quadrata ogni oggetto sembra al suo posto. Tre vetrine contengono targhe e onorificenze. Sulla parete destra, ci sono due tele a olio con soggetto religioso. Una consolle è appoggiata alla parete sinistra. Sopra c’è un vaso blu di Venini, ci sono altre targhe. Una pianta è alle spalle del professore. Sulla scrivania le carte sono disposte in maniera schematica. Garattini ha una giacca di velluto nero. La chioma bianca corta è curiosamente dello stesso colore del maglione sottile a collo alto, suo marchio di fabbrica da sempre. Al bar dell’Istituto ha preso un the. Ha aggiunto due bustine di zucchero di canna, che ha aperto con un solo strappo, e lo ha raffreddato con un cubetto di ghiaccio.
Seguire il filo dei ragionamenti di Garattini non è complicato. La sua vita di ricercatore è un tutt’uno con quella del Mario Negri, lo scenario di fondo è l’Italia, la modalità che ha ispirato i suoi comportamenti è il metodo scientifico. Ma il fallimento di cui parla non può essere personale. È lo scienziato che arriva alle conclusioni di uno studio, analizzando i numeri. «Stiamo ai fatti», dice. «Il rapporto tra investimenti in ricerca e Pil oggi non è molto diverso da quello del 1963, il numero di ricercatori in Italia è ancora molto basso. In tutti gli indicatori scientifici, l’Italia è sotto la media Ue e molto dietro rispetto ai Paesi concorrenti. L’Airc, l’Associazione per la ricerca contro il cancro, dà più fondi alla ricerca dello stesso Stato». Certo, ci sono eccezioni, centri all’avanguardia. «La parola eccellenza non mi piace, ma a Milano l’Istituto dei tumori, lo Ieo, il San Raffaele, il Besta sono strutture di livello internazionale. Il direttore di Lancet, Richard Horton, nel suo editoriale di endorsement alla candidatura di Milano a sede dell’Ema ha ricordato la qualità della ricerca di base e la capacità della città di costruire network di sperimentazione sul campo». Garattini glissa elegantemente, ma nel suo articolo Horton cita letteralmente «l’alto standing internazionale dell’Istituto farmacologico Mario Negri». Anche in questo caso basta scorrere i numeri per averne conferma. Tre sedi, oltre 14mila studi pubblicati e 500 ricercatori, perlopiù giovani, impegnati a tempo pieno su progetti specifici ma che si scambiano di continuo informazioni sulle proprie ricerche.
Un metodo che nel Paese non ha attecchito. «In Italia la cultura scientifica è rimasta Cenerentola. Se qualcuno dice che Garibaldi è un pittore dell’Ottocento, è un ignorante, ed è vero. Se, invece, confonde l’atomo e la molecola e glielo fai notare, ti dice che sei pignolo e che non siamo tutti scienziati. Non è una banalità, perché questa mentalità arriva ai più alti livelli e tocca anche i processi decisionali della politica». Garattini cita alcuni esempi estraendoli dalla cartella dei ricordi. «Quando ero nel Consiglio superiore di Sanità dovemmo faticare parecchio per impedire che il protocollo Di Bella venisse validato e i farmaci riconosciuti dal Servizio sanitario nazionale. Lo stesso è successo più di recente per stamina. L’emotività prende sempre il sopravvento. Perché nel Paese manca la cultura scientifica, lo ripeto. E perché la politica e i partiti sono condizionati dagli interessi elettorali». Durante l’affaire Di Bella, Garattini non ci era andato leggero. «È aberrante – disse allora – ricorrere all’emotività di chi soffre e rifiutare qualunque controllo sulla validità scientifica della terapia messa a punto. Ritrovo nel professor Di Bella le caratteristiche del cialtrone».
Garattini ripete più o meno oggi gli stessi concetti, ma ascoltandolo non si avverte alcuna vena polemica. È pacato nei giudizi. Non si riconosce nella descrizione di bastian contrario che gli viene attribuita. «I temi che mi chiedono di commentare – dice – sono sempre controversi, ma io sono un ricercatore, le mie opinioni sono sempre ispirate dai risultati oggettivi, come nella ricerca. Nella scienza non ci sono le sfumature della politica».
Per questo a Roma lo ricordano ancora quando presiedeva la commissione del Cuf che si occupava della revisione del prontuario dei farmaci. «Abbiamo fatto un’opera di cancellazione di prodotti dal prontuario che ha generato 4mila miliardi di vecchie lire di risparmi. Sono passati venti anni e non si è più fatta una revisione del prontuario. Ce ne sarebbe proprio bisogno. Nelle farmacie ci sono circa novemila prodotti. Ne basterebbe la metà».È un’altra costante del Garattini civile. «Anche in questo caso abbiamo perso la battaglia culturale per fare prevenzione e limitare la somministrazione di medicine. Hanno vinto le case farmaceutiche. Oggi si fuma, si beve, si fa uso di stupefacenti perché c’è la convinzione che esiste una cura per tutto. Tanto c’è una medicina. Si guarisce con i farmaci. La pubblicità, quando consentita, internet e l’informazione hanno diffuso questo messaggio distorto ma caro alle case farmaceutiche».
La politica, anche in questo caso, ha le sue responsabilità. «La Ue dovrebbe limitare l’approvazione di nuovi farmaci e ammettere in commercio solo quelli che portano un valore aggiunto terapeutico rispetto alle medicine che sono già sul mercato. Invece le nuove referenze proliferano». Come proliferano cure e metodi di dubbia efficacia. «L’omeopatia, per esempio, è inutile. Acqua fresca. Non c’è una sola evidenza scientifica che porti benefici terapeutici. Eppure i prodotti omeopatici, costosissimi, sono ammessi in commercio per il principio che non nuocciono alla salute. Ma i farmaci dovrebbero curare le malattie, altro che non nuocere alla salute...».
Contraddizioni di una legislazione europea che mostra le sue debolezze. «Ho trovato molto bizzarro che l’assegnazione della sede dell’Ema avvenisse per sorteggio. Non è un criterio per prendere una decisione di quella importanza. Neanche Inter-Pordenone di Coppa Italia si sarebbe decisa con il lancio della monetina. Milano avrebbe meritato l’assegnazione. Un’occasione persa, ma l’Italia doveva partire prima con la campagna pro-Milano, lavorare meglio in Europa per convincere i partner della bontà del nostro dossier, che era il migliore».
La chiacchierata volge al termine. Torniamo sul punto iniziale del fallimento. Chiediamo al professore se, guardandosi indietro si sente realizzato, come scienziato e come uomo. «Un ricercatore non può sentirsi appagato fino a quando ci saranno le malattie e la sofferenza. C’è sempre qualcosa da fare. Così come un uomo non può sentirsi pienamente in pace con se stesso finché c’è sofferenza».
Gli chiediamo a bruciapelo se uno scienziato può credere in Dio, se lui ci crede. Garattini allaccia e slaccia un paio di volte il primo bottone della giacca. «Ho una fede culturale, piena di dubbi. Ma credo che la Chiesa e la scienza possano fare molte cose assieme. Molte cose che dice Papa Francesco sulla povertà, le disuguaglianze, le malattie, le condivido pienamente. Mettiamola così. La scienza può fornire alla religione gli strumenti per raggiungere i suoi obiettivi più nobili. In fondo, vogliono entrambe alleviare le sofferenze dell’umanità».