il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2018
Intervista a Valeria Solarino: «È difficile essere donna sul set, i ruoli interessanti sono pochi»
Quante repliche abbiamo toccato?”. (Attimo di smarrimento). “Non lo so… forse 150, siamo in tournée da due anni. Aspetti, cerco il calendario e controllo”. Per Valeria Solarino non è una questione di amnesia da stanchezza, non è noia, non è l’età (ha 38 anni), è solo la reazione classica di chi vive il palco come una felice e normale quotidianità, dove il numero non conta, conta solo essere lì prima, durante e dopo il giù il sipario “quando ancora oggi mi fermo con Giulio (Scarpati, ndr) per condividere le impressioni sulla serata”: è la vita del teatrante.
Le “150” e passa sono state toccate grazie a Una giornata particolare, adattamento teatrale del capolavoro cinematografico di Ettore Scola con Marcello Mastroianni e Sophia Loren, e proprio il cinema è l’altra quotidianità della Solarino, presente nel nuovo film di Gabriele Muccino (A casa tutti bene) e prossimamente è in Quanto basta, coprotagonista con Vinicio Marchioni in una pellicola dedicata all’autismo.
Non ricorda il numero, però alla 150esima la tensione finisce…
Proprio per niente, il terrore c’è sempre, è la regola.
Regola aurea.
Nel mio caso la paura si tramuta in adrenalina prima, in soddisfazione poi. È una sfida. L’unico aspetto che amo poco è l’attesa di salire sul palco; in particolare la sera del debutto e ogni volta mi pongo la stessa domanda: “Perché questo lavoro?”.
Questa ansia sarà cambiata con gli anni.
Ora la gestisco, mentre all’inizio mi dominava, si impadroniva di me. Oggi sfrutto tutto.
Si spieghi…
Quando fai teatro puoi permetterti di vivere il personaggio oltre il copione, renderlo realmente tuo, giocare sulle sfumature a seconda dello stato d’animo o di salute.
Un esempio.
Ho l’influenza e non è un problema: ciò non vuol dire alterare il copione, ma mutare l’accento, utilizzare tutto, e senza timore.
Di che generazioni d’attori lei fa parte?
Credo quella legata a Che ne sarà di noi (film del 2004 di Giovanni Veronesi), con Silvio Muccino ed Elio Germano; poi all’inizio della carriera sono stata fortunata a trovare ruoli belli e importanti quando generalmente per le donne si scrivono pochi ruoli interessanti.
Come mai?
Gli sceneggiatori non sono tanti e sono uomini; e poi credo che dietro ci sia una questione di marketing.
Senza eccezione?
L’eccezione è Paolo Virzì.
Il suo primo set.
Grazie a Mimmo Calopresti (La felicità non costa niente): ero posseduta dal terrore, e neanche volevo dedicarmi al cinema, allora pensavo al teatro, ma è stato lui a insistere a volermi incontrare e convincere. Da quel film si è aperto un mondo.
La Solarino non attrice.
Impossibile.
Non è contemplata la possibilità.
Non c’è alcun piano B: io amo questo lavoro.
Con alcuni “però”?
Il però rientra in un problema comune alla mia categoria: non si realizzano molti film e non si montano tanti spettacoli teatrali.
Con chi si consiglia per scegliere un copione?
Nessuno, il rapporto è tra me, la mia pancia e l’eventuale insonnia: se non ci dormo la notte, la mattina rinuncio.
Nel cinema esistono dei clan?
Solo dei gruppi quando si lavora, come accaduto sul set di Muccino. Anzi…
Cosa?
Tra noi donne del film è scoppiato qualcosa di inedito, si è creata una famiglia, c’è solidarietà, voglia di aiutare, di sostenere: ci sentiamo tutti i giorni, abbiamo creato un gruppo WhatsApp.
Ed è così raro?
Di solito questa commistione nasce e muore con il set, dopo vince la quotidianità e la distanza. Questa volta, no.
Quando si parla di lei, al nome viene sempre associato l’aggettivo “bella”.
E all’inizio mi suscitava qualche fastidio, perché avevo voglia di affermarmi solo per le mie capacità… e poi non ho mai avuto una reale percezioni di me: la consapevolezza è arrivata con il teatro.
Brutta non si vedeva.
Prima dei 21 anni non mi sono truccata; poi mi sono detta: “Prendi i complimenti adesso, non rompere; un giorno non te li faranno più”. Oggi accetto pure il caffé al bar…
Vorrebbe dire?
Spesso me lo offrono, prima mi imbarazzavo, ora no; è bene imparare, o si rischia di deludere il prossimo.
La “chiave” dell’attore.
È un mestiere che ti obbliga a guardarti dentro, a ricercare l’autenticità di un’emozione; ma attenzione: per me non è una forma di terapia ed è necessario schermarsi dai personalismi, a difendersi.
E poi?
Non prendere un rifiuto come giudizio personale.
Vivere con un regista (Giovanni Veronesi) l’ha aiutata nel leggere questa verità?
Lui spesso ha la pazienza di spiegarmi i motivi di una scelta, è bravo a smussare certi apici; inoltre ha alcuni anni più di me, delle emozioni le ha già vissute e me le trasmette.
Pettegolezzi su di voi…
Non me ne importata nulla, ci sono e ci saranno; all’inizio neanche volevo lavorarci.
Lei e la notorietà.
Qualcuno mi riconosce, ma senza esagerare, non rischio la folla o gli assembramenti. Capita qualche foto, niente di più.
Con chi scatterebbe una foto?
L’unico selfie da me richiesto è stato con Roger Federer: non ho resistito.
Tifosa?
In realtà di Rafael Nadal, ma per carità: Federer non si discute. E sul tennis non si scherza, gioco quasi tutti i giorni. Quando posso.
È forte?
Senza esagerare. Mi raccomando sul tennis, non scriva cosa non vere, ci tengo, e apprezzo pure Federer.
Perché come diceva David Foster Wallace: “La particolarità di Federer è che è Mozart e i Metallica allo stesso tempo, e l’armonia è sopraffina”.