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 2018  gennaio 29 Lunedì calendario

Intervista a Massimo Mucchetti: «Non sono adatto ai riti di questo Pd: io mi fermo»

Senatore Massimo Mucchetti, perché ha deciso di non ricandidarsi?
Oggi nel Pd non ci si candida: si da’ al segretario o al capo corrente la disponibilità a essere messi in lista e loro scelgono. Non sono adatto a questi riti. Del resto, nel 2012 avevo accettato, e non cercato, l’offerta dell’allora segretario del Pd, Pierluigi Bersani, per concorrere a un’azione di governo. Ma il ruolo del Parlamento e’ stato depotenziato. E il governo ha perso troppi treni…
Eppure, lei è rimasto nel Pd e non ha aderito a Liberi e Uguali?
Non capivo l’utilità di una scissione prima del congresso, ancorché attribuisca a Renzi la responsabilità di aver pervicacemente cercato di liberarsi del dissenso, emarginandolo. Temevo inoltre derive estremiste per rendere più riconoscibile il nuovo partito. E poi stavo maturando la decisione di tornare al lavoro professionale, esaurito l’impegno di legislatura che mi ero preso. Certo, avrebbe avuto più senso costituire nel 2014 gruppi parlamentari autonomi, pur dentro la maggioranza, nel vedere la riforma costituzionale e l’Italicum, due disastri assai più importanti delle dinamiche interne di partito che furono la pistolettata di Sarajevo della scissione.
Questo in effetti lei propose, dice Vannino Chiti, un altro che non si ricandida, nel suo ultimo libro: niente scissione ma gruppi autonomi.
Ma dei 14 senatori che ebbero allora il coraggio civile di non partecipare al voto su quei due disegni di legge solo 4 o 5 erano disposti al grande passo. Troppo pochi. Il gruppo bersaniano aveva addirittura votato la riforma costituzionale in prima battuta. Ma la preveggenza non sempre paga in politica. Antonio Giolitti aveva ragione sui fatti d’Ungheria. Ma aveva contro Togliatti e dovette divorziare dal Pci.
Che bilancio trae di questi cinque anni in Parlamento?
Lascio ad altri i massimi sistemi. Sto al mio. E riconosco che siamo stati poco incisivi. Abbiamo fatto analisi di tipo nuovo sullo Stato azionista e le sue imprese e sull’elusione fiscale delle multinazionali digitali. Ma senza sponda nel governo.
Dopo l’indagine della sua commissione Industria sui risultati delle aziende pubbliche, Paolo Scaroni non è più stato confermato all’Eni. Un colpo per il sistema di potere che ruota attorno a Luigi Bisignani.
Quell’inchiesta accese un faro sui risultati reali delle società a controllo pubblico, ma le nomine le fece Renzi. Aver liquidato Alessandro Pansa a Finmeccanica fu un errore. La scelta di Claudio Descalzi, invece, sta dando risultati industriali rilevanti. Aver cambiato i vertici di Cassa depositi e prestiti in corso di mandato senza un progetto invece, preoccupa. Non tanto per i legami con il sistema Bisignani quanto per le scelte ondivaghe su private equity e Sace, telecomunicazioni e Ilva.
Il governo Renzi ha fermato la web tax, il governo Gentiloni ha lasciato fare al Parlamento.
Il Senato aveva approvato una web tax seria all’unanimità, con il consenso del governo. La Camera l’ha snaturata facendo pagare le nascenti imprese web italiane invece delle varie Google, e lo stesso governo ha subito l’impostazione del Pd di Montecitorio e del Nazareno. Alla fine non accadrà nulla.
Parliamo di banda larga. Lei aveva suggerito a Cdp ed Enel di cedere Open Fiber a Telecom contro azioni Telecom e poi di scindere la rete da Telecom con Cdp ed Enel che vendono le azioni Telecom appena ricevute per arrotondare la partecipazione nella società della rete. Ma l’Enel è contraria… E Vivendi, padrona di Telecom, fa melina.
La ritirata degli uomini Enel dal vertice di Open Fiber forse dice qualcosa. La Cdp tace. Il governo pure, a parte il ministro Calenda che fa quel che può con il golden power, e fa bene, ma alla fine ci vorrà un accordo senza vinti ma con tutti vincitori. Sto parlando delle aziende, non dei loro capitani: dei risparmi giganteschi possibili e del probabile aumento delle quotazioni. Ma per questo bisognerà attendere il nuovo governo.
Un governo con Berlusconi al centro cercherà di piegare tutto a vantaggio di Mediaset.
Berlusconi lo conosciamo, ma Mediaset ci sarà anche dopo di lui. Mediaset ha le torri. Le ha anche la Rai, e pure le società telefoniche le hanno. Sarebbe un reato costruire un campione nazionale attorno alla rete ex Telecom, regolato dall’Agcom al servizio degli operatori in concorrenza nelle telecomunicazioni come nella nuova tv?
Diversi giornalisti saranno candidati da M5s, Pd, e Forza Italia. La credibilità del giornalista dove finisce?
È la contestazione, strumentale e temporanea, che la Fiat fece alla direzione del Corriere della Sera quando accettai la proposta di Bersani. Non ne farei una regola. Montanelli rifiutò il laticlavio. Einaudi fece il ministro e il presidente della Repubblica. La credibilità dipende dalla schiena dritta e dal cervello, non dall’obbedienza a codici astratti.
Si è chiusa la commissione di inchiesta sulle banche con i fuochi d’artificio, poi il tema è sparito dalla campagna elettorale. Da dove si deve ripartire nella prossima legislatura?
Più che da commissioni d’inchiesta su argomenti ignobili ma facili, come le malefatte dei vari Zonin o le presunte inefficienze dei vigilanti (sempre meglio dei colleghi degli altri grandi Paesi, dati i risultati), si facciano le scelte giuste sui temi difficili come le sfide del fintech e delle piattaforme digitali al sistema bancario in essere e le loro conseguenze per il Paese.
Tornerà a fare il giornalista ora?
Dopo il giornalismo, la politica è stata la mia seconda vita, un gran master professionale alla fine. La nostalgia per la prima non manca, ma si può anche immaginare una terza vita.