il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2018
Intervista a Emma Marrone: È stata dura andare oltre ‘Amici’. Ora le malelingue non lasciano più traccia
Abbigliamento ricercato, pettinatura studiata, atteggiamento sicuro ma non sfrontato, argomenti trattati a viso aperto, dagli attacchi su Internet alle battaglie per i diritti, ai successi sul palco, fino al tumore scoperto a soli 25 anni; il mix segnala la presenza di una star, una in grado di fissare gli attimi nella mente e moltiplicarli nell’esperienza. Star si diventa. E una delle ultime verità, oramai assodate, offerte dalla generazione dei talent, dove in migliaia sognano, pochi riescono; dove in migliaia credono, in pochi sono. Tra i pochi c’è Emma Marrone, da alcuni trattata con sufficienza per le sue origini professionali (“Questa storia di Amici è un continuo”), dalla maggior parte narrata per i suoi numeri (ha superato il milione di copie vendute in carriera) e per le collaborazioni internazionali e nazionali (a partire da Giuliano Sangiorgi dei Negramaro). Ora è in giro per presentare il suo ultimo album, Essere qui, “e finalmente sono a Roma…”.
Roma e non Milano.
Milano la amo, ma per me è troppo Nord; mentre Roma è ancora popolare, ha il sapore di casa.
Per sempre terrona.
Ho bisogno del contatto con le persone…
Non si spaventa.
So mettere delle barriere, so dosare certe situazioni, giostrami tra le maglie della vita senza fingere una assoluta normalità, ma senza fermarmi a certi stereotipi.
Oramai sono passati otto anni dal suo debutto ad Amici, il pubblico sarà cambiato.
Molto: i fan dell’inizio sono cresciuti insieme a me e poi in questo percorso sono stati fondamentali i concerti.
Fuori da uno studio televisivo.
Soprattutto perché in radio passa la mia versione più pop, quella più fruibile e richiesta, mentre nei live esce il lato rock e qualche fidanzato delle mie fan si è convertito: all’inizio venivano solo con la scusa “accompagno lei”.
Sembra cercare un’emancipazione dal timbro del talent.
Mi avvalgo della formula “il fine giustifica i mezzi”. Mi occupo di musica da quando sono bambina, a 20 anni ho prodotto il mio primo album, da quel momento ho iniziato a mandare decine e decine di demo alle case discografiche.
E ogni volta…
Mi rispondevano che non ero adatta a questo mestiere.
Eppure non mollava.
Zero. Per mantenermi e non pesare sui miei ho accettato qualunque tipo di lavoro.
Quindi Amici.
E non rientriamo sotto la sfera dei desiderata, ma della necessità: oltre a questi programmi, non c’è nulla; non c’è più la figura del talent scout che frequenta i locali, ascolta le band emergenti e poi decide se scritturare.
Oggi, invece.
Ti vogliono già pronto, strutturato, sgamato, con un seguito alle spalle, in qualche modo garantito. A quel punto investono qualcosa, con l’obiettivo di recuperare immediatamente l’obolo versato.
Lucio Dalla è diventato Dalla al quinto disco.
Oggi è impossibile, non ci sono i soldi: una casa discografica non ha la forza per costruire una band da zero. Ribadisco: ora si guardano solo i talent, si sceglie l’artista dell’annata e lo si scrittura.
Come i pesci all’ingrosso…
I discografici valutano l’indice di gradimento, studiano i social, la trasmissione. Ti soppesano.
Anche per lei, uguale?
Quando sono arrivata ad Amici avevo già 25 anni… neanche ci volevo andare.
Chi l’ha spinta?
Mamma: è stata lei a iscrivermi, e ovviamente mio padre era d’accordo.
E subito dopo…
Sono arrivate una serie di offerte. Insomma, sapevo perfettamente quale sarebbe stata la mia strada.
E l’ha percorsa.
In particolare con gli ultimi due lavori, dove sono riuscita a imporre totalmente il mio gusto musicale, dove c’è il blues, il funk, il rock e un pop intelligente come mi ha detto Derrick McKenzie (batterista dei Jamiroquai).
Perché questa svolta non è arrivata prima?
In parte a causa di una serie di pregiudizi legati ad Amici.
Viene così tanto rimarcato?
I critici mi hanno sempre guardato con l’occhio obliquo.
Lei è stata notata in parte per il suo aspetto fisico.
Per anni ho cercato di vestirmi da maschiaccio e il tutto l’ho accentuato con una simil camminata rude, quasi da gang del Bronx.
Una maschera…
Siamo donne in un Paese maschilista, dove incidono logiche maschiliste, quindi è stato meglio schermarsi per far passare il messaggio che sono una musicista e non una figa bionda.
Ha funzionato?
A suo tempo, sì. Adesso non ne ho più bisogno, non mi devo nascondere.
Durante Sanremo 2011 è fuggita dal Festival per la campagna delle donne “Se non ora quando”.
Ed è scoppiata qualche polemica, ma solo fuori, dentro al Festival non ho sentito alcun attacco. Ma sono sempre stata così, se credo, non mi fermo.
Anche alle superiori?
Ero rappresentante d’istituto.
Da bambina cosa voleva diventare?
Medico. Perché sono totalmente ipocondriaca, un po’ come Carlo Verdone: se qualcuno dei miei amici ha un problema, mi chiama e do la consulenza.
Chissà un dialogo tra lei e Verdone…
Quando siamo a casa di Giovanni Veronesi a un certo punto della serata ci isoliamo per confrontarci su medicine e medici.
Suo padre è infermiere in pensione.
L’ipocondria parte da lui: lavorava al pronto soccorso, per questo vedeva drammi ovunque: “Non camminare se cadi”; “Se cadi con lo scooter muori”; “Attenta alla ferita, si infetta”, sono solo alcune delle sue tipiche pillole di saggezza.
Si confronterà anche con lui sulle eventuali cure…
Quando non sono ferratissima su un argomento, lo chiamo: l’altro giorno mi sono preoccupata, la mia diagnosi era “extrasistole”; lui ha derubricato sotto la casella “stress”. E con ragione.
Suo padre ha sfruttato l’ipocondria per scongiurare l’utilizzo di droghe e alcol?
Sono cresciuta in una famiglia senza tabù; rispettosa delle scelte altrui, qualunque scelta, anche sessuale, tanto da creare una sorta di zona franca per gli amici.
E le droghe?
Ovvio, il messaggio di base era negativo, ma quando un giorno mi ha beccato la marijuana dentro lo zainetto, ha semplicemente detto: “È inutile dirti di non fumare, l’ho fatto anni fa, molto prima di te; almeno evita di andare in giro con questa roba: se ti beccano sono cavoli, se devi fumare, meglio in casa”.
E lei?
Allibita. Quando ho aperto la porta e sul tavolo della sala da pranzo ho visto le mie cartine e l’erba, ho pensato: ora mi dà le mazzate (le botte in dialetto salentino); invece, a bocca aperta, sono solo riuscita a rispondere: “Sei un mito”. E così ha smontato pure il fascino del proibito: da allora non ho più fumato.
Ha iniziato a suonare con suo padre.
Da bambina mi portava in giro con la sua band, spesso non era una scelta, era un obbligo.
Non le andava?
Un po’ per timidezza, un po’ perché ho una forma di asocialità neanche troppo latente, non mi piaceva espormi, temevo gli assembramenti di persone; lo stare davanti a tutti, esposta. E avevo solo nove anni.
Piccolissima.
Ho iniziato come corista; con il tempo ho scalato le posizioni della band fino ad assegnarmi i pezzi più complicati: da Mina a Patty Pravo, fino Vasco Rossi.
Come si chiamava la band?
Abbiamo cambiato una serie infinita di nomi, da Caladreon ai Tulipani neri, infine H2O…
H2O?
Perché ogni volta che andavamo a suonare, pioveva.
Suonava solo con suo padre?
Da adolescente ho iniziato con altre band, ma solo a un patto: dovevo mettere in ordine le date, la precedenza assoluta era sempre per mio padre. Non si discuteva al riguardo. Sono finita a cantare in certi matrimoni…
Ha un fratello: lui non si sentiva messo da parte?
Veramente, della famiglia, è l’unico ad aver studiato musica: ma per lui è un hobby… Ah, anche mia mamma canta in un coro polifonico.
Lei ha spesso denunciato il problema degli hater…
Non combatto contro di loro, io lotto contro quello che sta esplodendo insieme a loro, cosa causano: ragazzi si sono suicidati e le violenze perpetrate lo dimostrano. Non c’è mica da scherzare, e forse non ce ne rendiamo pienamente conto.
I social sono terreno quasi “franco”.
Il discorso è a monte: se un personaggio pubblico twitta parole o frasi chiaramente offensive, selvagge, deve comprendere che dà la carica e la giustificazione a una serie infinita di persone.
A lei hanno detto la qualunque.
Per fortuna ho delle spalle larghe e sono cresciuta con un’educazione che mi è servita a superare certi attacchi; ma non nego di averci sofferto.
Come mai, lei?
Non lo so, forse torniamo alla vicenda di Amici.
Risponde agli attacchi.
Uno non può tacere sempre, il silenzio rischia di diventare complicità. Comunque gli argomenti degli hater sono infiniti: dalla musica a come mi vesto, o l’accusa di ritoccare delle mie foto in costume.
Lei è timida?
Non si direbbe ma sì, e non è neanche un problema, in certi casi la timidezza ti preserva da alcuni errori.
Da timida trovarsi di fronte a migliaia di fan…
Vivo gli attimi prima di salire sul palco con uno sbattimento totale: la tensione svanisce verso la terza canzone e quel contesto, all’improvviso, diventa il luogo dove mi sento maggiormente disinibita.
Rispetto ai suoi sogni da musicista, cosa ha sbagliato?
Non pensavo di arrivare così in alto.
Però non si stupisce…
Quello sempre, lo stupore è perenne, come quando Renato Zero mi ha chiamato sul palco con lui, stessa storia con Battiato. Anzi da Franco sono pure rimasta a dormire.
Casa di Battiato dà l’idea di un luogo etereo.
Non ho chiuso occhio, neanche un secondo.
Com’è?
Piena di libri. Poi la mattina mi è venuto a svegliare con il caffè in mano, e come in un film mi ha invitata a passeggiare in spiaggia. Chiacchierate infinite, bellissime, un feeling particolare.
È circondata dai miti di quando era ragazzina…
Battiato mi ha regalato un ritratto dipinto da lui, e mi ha tratteggiato con il terzo occhio al centro della fronte.
Rapporto stretto.
Se penso a un momento completo della mia vita, la fotografia più bella della mia carriera, allora ripercorro i momenti insieme a lui, quando ci siamo seduti su delle sdraiette davanti al mare.
Ha raccontato pubblicamente del suo tumore all’utero.
Quando ho deciso di parlarne l’ho fatto solo per diventare un esempio, per incitare le persone a controllarsi maggiormente e non aspettare il manifestarsi del problema.
Il suo cognome le ha mai creato dei problemi?
Mi hanno sempre rotto le palle, e accade ancora oggi: “Emma merdone” è un classico; però queste storie mi suscitano delle ricche risate.
Neanche da bambina la turbavano?
Non sono mai stata una delicatina, sono sempre stata un po’ irriverente (La sua agente la ferma, le legge un tweet nel quale l’attacca per delle foto in pelliccia: “Sangue e morte di animali nella tua gioia?”. Lei immediatamente prende in mano il cellulare).
Ci risiamo.
Rispondo subito: io non metto pellicce, quella che indossavo era finta e l’ho pure detto. Ma tanto è così, oramai il gioco è al massacro e non mi piace per niente.
(Nel suo album c’è una canzone intitolata “Malelingue”, e canta: “Ho trent’anni sulle spalle e qualche schiaffo in faccia; ma le lingue su di me non lasciano più traccia”)