La Stampa, 28 gennaio 2018
Kabul, la strage dell’ambulanza. Una bomba piazzata in un’auto dei soccorsi causa 95 morti
Al primo check-point l’hanno fermato. L’autista dell’ambulanza ha spiegato che stava portando un paziente al vicino ospedale di Jamhuriat, nel centro della Kabul blindata delle ambasciate. I soldati l’hanno fatto passare. Il kamikaze dei taleban ha puntato allora verso la via che ospita la sede dell’Unione europea e l’Alto consiglio per la pace, attraverso una zona dove c’è anche il consolato indiano e un mercato molto popolare, Chicken Street. Al secondo check-point l’ambulanza è stata fermata di nuovo e a questo punto il terrorista l’ha fatta esplodere, in mezzo ai soldati e alla folla che andava nei ristoranti e a fare spese.
È stato un massacro terribile, anche per una città come Kabul devastata da quarant’anni di guerre civili. «La strada era distrutta, sembrava un macello, corpi, sangue dappertutto», hanno raccontato testimoni sul posto. I vetri dell’ospedale Jamhuriat hanno tremato, a un chilometro di distanza si è vista «una fiammata enorme, poi una colonna di fumo nero, pungente, che irritava gli occhi». Una carica di tritolo di decine e decine di chili, secondo le modalità degli ultimi attacchi nella capitale afghana, come quello con un camion bomba del 31 maggio scorso, che fece oltre 150 morti e 400 feriti. Gli ospedali, a partire da quello di Emergency, si sono riempiti. Il bilancio ieri sera era di 95 vittime, 158 feriti, ma potrebbe salire ancora.
Poco dopo è arrivata la rivendicazione del portavoce dei taleban, Zabihullah Mujahid: «Un martire ha fatto esplodere la sua autobomba – ha spiegato – vicino al ministero dell’Interno contro le forze di polizia». Ma l’attacco ha fatto quasi tutte vittime civili, in una via piena di negozi, compresi molti antiquari. Strategia del terrore puro, dopo l’attacco all’Hotel Continental del 20 gennaio, almeno 22 morti, alcuni stranieri. Ma se una settimana fa l’obiettivo dichiarato degli islamisti erano gli occidentali, questa volta lo scopo sembra soltanto portare il caos nella capitale. Uno stile che appartiene più al Network Haqqani, l’ala pachistana dei taleban in Afghanistan.
In mezzo c’è stato l’assalto alla sede di Save the Children a Jalalabad di quattro giorni fa. Un’attività «invernale» che non promette niente di buono, perché di solito è a maggio che gli studenti coranici lanciano la loro offensiva principale, di primavera. Il gruppo islamista, che ha governato l’Afghanistan dal 1996 al 2001, un antipasto di Califfato, ha ora il controllo totale o parziale del 43 per cento del territorio afghano, secondo l’istituto americano Sigar. Nel rapporto sull’anno 2016, lo stesso Sigar ha notato come le forze di sicurezza locali hanno patito quasi 7 mila caduti e oltre 11 mila feriti. Un ritmo «insostenibile».
I militari sono sulla carta 300 mila, nella realtà un terzo, perché la maggior parte lascia la paga agli ufficiali per poter restare in famiglia, a lavorare. In Afghanistan ci sono ancora circa 15 mila militari della Nato, dopo un picco di 150 mila nel 2011. Donald Trump ha inviato rinforzi ma sono insufficienti, perché gli afghani, pur addestrati dagli occidentali, non sono in grado di fronteggiare i 40-60 mila combattenti islamisti, più motivati e a volte anche meglio pagati dei governativi.
Caos e corruzione stanno sfaldando lo Stato: hanno fatto scalpore, tre giorni fa, le dimissioni del combattivo governatore della provincia di Farah, Mohammad Aref Shah Jahan, «per ragioni di sicurezza», dopo che la gente era scesa in strada a protestare e i militari avevano sparato sui civili. Uno schiaffo al governo centrale del presidente Ashraf Ghani e alla presunta «stabilizzazione» del Paese. Senza contare che nelle province orientali, come nel Nangarhar, ha fatto la sua dirompente comparsa anche l’Isis, con un migliaio di miliziani, in parte foreign fighters. La guerra «infinita» al terrorismo in Afghanistan è stata presa alla lettera e la «madre di tutte le bombe», sganciata da Trump lo scorso aprile, non sembra averla accorciata.