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 2018  gennaio 28 Domenica calendario

M’è scappato un pro

Uscendo nottetempo dalla direzione Pd per le candidature, Matteo Renzi l’ha definita “una delle esperienze personali più devastanti”. Ovviamente non per lui, che sarà eletto di sicuro (c’è sempre una prima e un’ultima volta), ma per gli altri trombati da lui. E, soprattutto, per gli eventuali elettori del Pd, chiamati a una prova d’amore che neanche Melania Trump. Il più devastato è Andrea Orlando, l’ultimo italiano che si fida ancora della parola di Renzi: aveva chiesto 40 posti, ne ha avuti 15, quindi è soddisfatto. Infatti dice, massaggiandosi l’occhio nero e incerottandosi il naso rotto, che “non è il momento di fare polemica. Ognuno deve fare le scelte che ritiene più giuste”. Un po’ come i calciatori brocchi che non giocano mai, ma assicurano “ho fiducia nel mister e la squadra è scesa in campo per fare la sua partita”. Un po’ devastato anche il ministro Calenda, vedovo inconsolabile di “gente seria come De Vincenti, Rughetti, Tinagli, Realacci e Manconi” e ansioso di garantire a cotanti statisti una poltrona o almeno un sofà. Realacci condivide: “Se il Pd non mi ricandida, commette un errore” è il suo parere super partes. Decisamente meno devastato è Renzi che elogia Renzi per vari meriti di Renzi: “Ho fatto il capolavoro di candidare i ministri” (che non ci tenevano a un seggio sicuro, lui però li ha convinti per il nostro bene: del resto chi potrebbe fare a meno di un Lotti, una Madia, una Fedeli?); “ho mantenuto la promessa di usare il lanciafiamme” (metafora che entusiasmerà non solo la Annibali, ma tutte le vittime del fuoco); “ho ribaltato varie Regioni, a partire dalla Campania e ovunque. Aria fresca, rinnovamento”.
Ribalta qua, ribalta là, in Campania ecco il figlio di De Luca (rinnovamento dinastico) e il grande Franco Alfieri, quello che prende voti grazie alla “fritture di pesce”. E la Sicilia? Ribaltata pure quella: pussa via Giuseppe Antoci, presidente del Parco dei Nebrodi scampato alla strage mafiosa, e largo a Pietro Navarra, rettore a Messina e nipote del dottor Michele Navarra da Corleone, l’uomo che ordinò l’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto e insegnò i primi rudimenti a Liggio, padre-padrino di Riina e Provenzano. Un bel segnale a tutti i siciliani. Ribaltato anche il tranquillo Alto Adige, con lo sbarco terra-aria di Maria Elena Boschi che ora – come suggerisce Enzo Marzo – in ossequio al Trattato De Gasperi-Gruber del 1946 sul bilinguismo, adotterà la doppia denominazione Boschi/Wälder. La povera donna, causa l’ostilità delle dirigenze indigene di Pd e Svp insensibili al suo travestimento da Heidi, non può ancora metter piede a Bolzano.
E da tre giorni e tre notti è accampata all’autogrill di Trento Nord con un istitutore che le pratica un corso accelerato di ladino. Noi però siamo strafelici per l’approdo in Parlamento di tanti giornalisti, anche perché non dovremo più chiamarli colleghi. Soprattutto i noti s’offerenti (nel senso che s’offrivano parecchio) Francesca Barra e Giuliano da Empoli, finalmente sedati dopo tanto vagare. Ci ha invece sorpresi Tommaso Cerno, il neo e già ex condirettore di Repubblica che è durato solo tre mesi. Tentando di decrittare, peraltro invano, i suoi articoli appassionati quanto cifrati e le sue accaldate ma purtroppo criptiche comparsate tv, ci era parso di intuire che fosse molto critico con Renzi. Il quale però non serba rancore o più semplicemente ha capito male, e lo piazza a capolista in Friuli: ottima scelta perché almeno Cerno, nato a Udine, potrà rappresentare un “territorio” dove lo conoscono tutti. Anzi, si spera non proprio tutti: esclusi quelli che lo ricordano candidato di An alle Comunali del ’95, al seguito di Daniele Franz, ex presidente del Fronte della Gioventù; e quelli che hanno letto il suo ultimo libro A noi! sull’eterno fascismo dei politici italiani, Renzi compreso; e i lettori dell’Espresso da lui diretto fino a ottobre, con le sue torrenziali intemerate che, almeno a noi, parevano proprio antirenziane. Come l’editoriale del 2 marzo su Consip e quello che lui chiamava addirittura “il Giglio Nero”. Botte da orbi sulle “relazioni pericolose fra Tiziano Renzi, padre dell’ex premier ed ex segretario Pd Matteo, Denis Verdini, ex berlusconiano legato ai Renzi da avventure di altri tempi e poi divenuto stampella del governo piddino, e Luca Lotti”. E giù domande ficcanti su “cosa Matteo Renzi sapesse, direttamente o indirettamente”, sulle “ombre che si stendono su tre figure chiave: il genitore, l’alleato scomodo, l’amico e fedelissimo di governo”, sulle “zone grigie” che imponevano al Cerno “il dovere di porre alcune domande”: “Presidente, era al corrente di ciò che avveniva, o tutto è stato fatto a sua insaputa?… Nel caso in cui qualcosa le fosse giunto all’orecchio, cosa è stato fatto per porre fine a tutto questo? Per prendere le distanze, politicamente prima di tutto, da qualcosa che somiglia a un groviglio di relazioni che si vuol mutare in ‘sistema’?”. Che Renzi parlasse, perdio: “Che sia lui a dirci che idea s’è fatto del ruolo del su’ babbo, dell’alleato Verdini e dell’amico Lotti nella vicenda Consip”, perché, inchieste a parte, “interessa prima di tutto la sua risposta politica. A noi, certamente. Ma di più al Paese”. Ecco: chissà se, prima di accettare, Cerno ha poi avuto quelle risposte da Renzi. Almeno in privato. E se le farà conoscere anche a noi, “ma di più al Paese”. Sennò, Dio non voglia, rischierebbe di passare per uno di quei voltagabbana tanto vituperati nelle sue tonitruanti filippiche. Tipo Totò ne I tartassati, quando si fa l’idea che il maresciallo della Tributaria (Fabrizi) abbia nostalgie fasciste e per farselo amico inneggia al Duce (“Quelli sì che erano tempi!”), poi capisce l’equivoco e ingrana la retromarcia: “Ma allora lei è anti? Anch’io! Mi sarà scappato un pro, ma sono sempre stato anti!”.