il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2018
88 anni e non sentirli
Chissà se nella cosiddetta Europa qualcuno ha mai sentito parlare della trattativa Stato-mafia. Forse tanti anni fa, quando anche nei circuiti internazionali del potere B. era unfit a governare l’Italia, come titolò l’Economist nel 2001, 12 anni prima che venisse condannato definitivamente per frode fiscale e 16 anni prima che l’ormai ex direttore Bill Emmott lo definisse il possibile “salvatore politico dell’Italia”. Nel 2001 fu proprio per i suoi già stranoti rapporti con Cosa Nostra che il Caimano fu giudicato così severamente da una delle più autorevoli testate mondiali. Da allora molti fatti nuovi sono emersi sull’argomento, aggravando vieppiù la sua posizione: la condanna definitiva a 7 anni, la fuga in Libano e l’arresto del suo braccio destro Marcello Dell’Utri, tuttora in galera per mafia; il rinvio a giudizio di Dell’Utri nel maxiprocesso sulla Trattativa per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato; e le intercettazioni in carcere dei due protagonisti delle stragi mafiose del 1992-’94, Salvatore Riina e Giuseppe Graviano, che guardacaso, rievocando la stagione dell’attacco allo Stato con i compagni di ora d’aria, parlavano entrambi di Silvio&Marcello. Ciononostante, o forse proprio per questo, non solo B. non è stato emarginato dalle classi dirigenti italiane ed europee, ma è stato addirittura riabilitato come “argine” contro non si sa bene quali pericoli peggiori di lui.
Nessuno può sapere come finirà il processo sulla trattativa, giunto ieri dopo 202 udienze di dibattimento e 8 di requisitoria alle richieste di pena dei pm per un totale di 88 anni di carcere ai 9 imputati superstiti. La sentenza che verrà emessa ad aprile dalla Corte d’assise composta dal presidente Alfredo Montalto, dalla giudice a latere Stefania Brambille e da 6 giudici popolari, è aperta a molti esiti diversi: a) la condanna di tutti gli imputati o di alcuni di essi; b) l’assoluzione perché la trattativa ci fu ma non è reato (il fatto non costituisce reato); c) l’assoluzione perché la trattativa ci fu ma non la fecero gli attuali imputati (non aver commesso il fatto: come ha già stabilito per Calogero Mannino il gup nel processo di primo grado con rito abbreviato); d) l’assoluzione perché la trattativa non è mai esistita o non ci sono prove sufficienti che sia esistita (il fatto non sussiste, magari col comma 2 dell’art. 530 Cp, cioè con la vecchia insufficienza di prove). Gli esiti a), b) e c) confermerebbero in tutto o in parte la ricostruzione della Procura di Palermo, o meglio dei pm che in questi 10 anni, contro tutto e contro tutti, han cercato coraggiosamente di illuminare uno dei buchi più neri della nostra storia.
Lo scenario e) sconfesserebbe invece la pubblica accusa e sarebbe un colpo di spugna sulla montagna di indizi raccolti nel processo più inviso al potere dopo quello ad Andreotti. A partire dalla testimonianza degli ex ufficiali del Ros Mori e De Donno che nel 1997, al processo di Firenze sulle stragi del ’93, costretti dalle rivelazioni del pentito Brusca, ammisero candidamente di aver avviato nel ’92 “una trattativa con Vito Ciancimino” per negoziare con Riina. Se la “trattativa” si chiama così è perché furono Mori e De Donno a chiamarla così: con i verbi all’indicativo e senza gli aggettivi alla vaselina – “presunta”, “supposta”, “eventuale” – sempre usati da giornalisti, giudici e politici di regime per indorare la pillola al popolo bue.
I processi, prim’ancora che a mandare in carcere i colpevoli, servono ad accertare la verità processuale, cioè quella porzione di verità storica che si riesce a dimostrare in un’aula di tribunale con documenti, testimonianze, confessioni e intercettazioni. Le prove che i pm Ingroia (prima di lasciare la toga), Teresi, Di Matteo, Del Bene e Tartaglia sono riusciti a mettere a disposizione della Corte d’assise sono impressionanti, se si pensa al quarto di secolo trascorso dai fatti e ai sistematici sabotaggi, boicottaggi e depistaggi fino ai più alti livelli istituzionali, politici e giudiziari (anche queste sono prove di una trattativa tuttora in atto 25 anni dopo). In questo caso, poi, la ricostruzione dei fatti è infinitamente più cruciale della punizione degli eventuali colpevoli: gli imputati superstiti, dopo 10 anni di indagini e udienze, sono persone molto anziane e ormai prive di cariche pubbliche.
Ma le protezioni di cui hanno goduto e godono dimostrano il loro formidabile potere intimidatorio e ricattatorio, che deriva proprio dalla loro conoscenza di quelle vicende. Sanno quello che hanno fatto, con chi e per conto di chi. E, siccome in Italia non si butta via niente, sono in grado di spaventare mandanti, complici e favoreggiatori rimasti nell’ombra. Nel 1992 Riina e i suoi complici nelle istituzioni, nella politica e negli apparati architettarono il Grande Ricatto allo Stato a suon di bombe e a costo di decine di sacrifici umani (Borsellino, la sua scorta e tanti cittadini inermi caduti a Firenze e Milano) per rimpiazzare i collusi alla Andreotti&C. con i collusi alla B.&C. Oggi un secondo Grande Ricatto, figlio del primo, grava ancora sulla vita pubblica: quello di chi sa tutto e potrà mercanteggiare a carissimo prezzo il suo silenzio fino a quando chi già comandava allora non sarà spazzato via (infatti Graviano lavorava per inviare messaggi ricattatori a B. ancora l’anno scorso, non nella preistoria). É questo è il principale merito dell’inchiesta sulla trattativa: avere fornito alla Corte d’assise tutti gli strumenti possibili per squarciare finalmente il velo dell’omertà e dell’ipocrisia sul più indicibile dei segreti di Stato. Ora tocca ai giudici, togati e popolari, trovare il coraggio di mettere nero su bianco quella verità che tutti conoscono ma nessuno vuole sentire. Vedi mai che poi ne faccia tesoro, se non l’Italia, almeno l’Europa.