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 2018  gennaio 27 Sabato calendario

Sul business del legname le mani della ’ndrangheta

Nel 2019 i boschi della Sila potrebbero diventare patrimonio dell’Unesco. Un tesoro fatto di aria pulita, laghi incontaminati e foreste secolari. L’oro verde della Calabria potrebbe essere la 54esima bellezza italiana riconosciuta come patrimonio dell’umanità. Ma all’imminente festa potrebbe esserci un ospite indesiderato: la ‘ndrangheta. I clan dominano sull’altopiano silano da anni. Tanto che il boss e il suo braccio destro, prima di essere arrestati, meditavano di cambiare business «perché qua tra breve non c’è più niente, queste quattro piante sono…». Protagonista di questa intercettazione è Vincenzo Santoro, appena arrestato nella maxi operazione Stige. Per anni è stato il ras dei boschi. Un controllo del territorio totale, tanto che molti clan a lui affidavano i latitanti per nasconderli. Ma il vero compito del re della foresta era quello di coordinare gli appalti boschivi pubblici e privati, «tenendo i rapporti con le diverse organizzazioni criminali territoriali, assicurando una suddivisione dei proventi». Non un solo ramo poteva essere tagliato senza il suo nulla osta.
Gli inquirenti dopo anni di indagini hanno ricostruito quello che appare un vero sistema. Gli appalti boschivi, indetti dalle pubbliche amministrazioni, venivano prima valutati dal referente della ‘ndrangheta che fissava un prezzo. Essendo i bandi di gara ad offerta a rialzo, la cosca coordinava le ditte interessate all’appalto affinché lo stesso venisse aggiudicato a un prezzo inferiore rispetto al reale valore del legname che poteva essere ricavato. La differenza tra il prezzo pagato dalla ditta per aggiudicarsi l’appalto ed il valore del legname estratto doveva essere poi versato nella “bacinella” (la cassa comune) della cosca. Una spartizione a cui tutti i capibastone avevano dato il loro assenso. Quando venne ucciso il boss di Petilia Policastro, Vincenzo Manfreda sulla sua auto i carabinieri trovarono un foglio con i prezzi di vendita del legname sottoscritto da proprietari di ditte boschive.
Agli enti spettava solo il compito di ratificare quanto già deciso. Così, per esempio, a Scigliano, paese alle porte della Sila, nessuno si era accorto che le uniche due offerte pervenute per un appalto per taglio boschivo arrivano da due distinte società ma riportavano identica calligrafia e impostazione grafica e venivano spedite contemporaneamente dallo stesso ufficio postale (l’orario sul timbro di raccomandata differisce di circa due minuti). E anche quando i cittadini si accorgevano che qualcosa non andava, ci pensavano gli amministratori a silenziare la protesta. È il caso di Mandatoriccio dove erano state raccolte firme per indire un referendum e bloccare il taglio di oltre 6mila querce. Per il sindaco però quelle firme sarebbero state ottenute con l’inganno. Per le ditte della ‘ndrangheta, quindi, i boschi della Sila erano cosa loro. Vinto un appalto iniziavano i tagli abusivi sconfinando in terreni limitrofi. Negli atti dell’inchiesta si parla, per ogni singola gara, di centinaia di tronchi tagliati in più rispetto a quelli autorizzati. E quando qualcosa andava storto si poteva contare su qualche amico. Come un ex assessore all’ambiente di un Comune silano, intercettato mentre avvisava l’imprenditore legato al clan di interrompere i tagli: «È venuto l’agronomo come un pazzo… troppi tronchi stanno uscendo».
Poi c’è il fuoco. L’ estate scorsa tra i boschi del Pollino e della Sila è andato in cenere l’equivalente di 60mila campi da calcio. Solo a Longobucco sono bruciati 3mila ettari di bosco, a Rose è stato attraversato dalle fiamme due terzi del territorio comunale. Un’ecatombe che però ha favorito ggli abbattimenti. Per la legge regionale l’area bruciata va bonificata e gli alberi bruciati abbattuti. E le ditte dei clan si ineriscono nella discrezionalità di cosa salvare e cosa no.
Montagne di legname che quasi sempre riforniscono le centrali a biomasse che ogni anno bruciano un milione e mezzo di tonnellate di cippato. Di questo, ufficialmente solo un terzo viene dai boschi calabresi, eppure dalle indagini è emerso come le ditte del clan riuscissero a falsificare le bolle «in maniera tale da poter introdurre una maggiore quantità di cippato da loro prodotto spesso utilizzando legname tagliato in maniera fraudolenta».