26 gennaio 2018
APPUNTI SU TRUMP A DAVOS PER GAZZETTA
PAOLO MASTROLILLI, LASTAMPA.IT –
«Quando l’America cresce, tutto il mondo cresce». Questa è la sfida che Donald Trump ha lanciato a Davos: seguite il nostro modello, e avrete lo stesso successo economico che gli Usa stanno già vivendo.
Molti si aspettavano un discorso di rottura, nello stile abituale del capo della Casa Bianca, che aveva impostato la sua campagna elettorale contro i principi professati al World Economic Forum. Trump invece ha scelto una linea più equilibrata, con cui ha difeso la sua visione di America First e esaltato i risultati economici ottenuti, offrendola però come un modello di crescita utile a tutti.
I punti che ha sottolineato sono stati tre. Primo, «America is open for business». Gli Usa stanno vivendo un rinascimento economico, grazie alla riforma fiscale e la deregulation, ed è il momento di venire ad investire da noi. Secondo: «Restiamo a favore del libero commercio, ma i trattati devono essere giusti e reciproci». Terzo, abbiamo un interesse comune alla sicurezza, e quindi dobbiamo restare uniti nella lotta al terrorismo, e nel fermare le ambizioni nucleari di Corea del Nord e Iran.
Su queste basi, Trump spera di rilanciare la collaborazione con la comunità internazionale, europea in particolare, che finora lo ha criticato, perché offre una ricetta utile a tutti. Non la guerra commerciale, ma una equità di sistema che aiuti ogni paese. E poi tagli a tasse e regole, perché favoriscono le aziende di ogni continente a crescere.
Quanto al dollaro, il presidente americano non può avere una politica ufficiale a favore della sua svalutazione, ma è chiaro che nel breve periodo aiuta la crescita. Il tutto sempre tenendo presente il credo populista che gli ha fatto conquistare la Casa Bianca: «Per essere grandi non basta investire nei nostri paesi, bisogna investire nei nostri popoli. Quando la gente viene dimenticata, il mondo si frattura».
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GIANLUCA DI DONFRANCESCO, ILSOLE24ORE.COM –
«È un privilegio essere qui a rappresentare gli interessi del popolo americano e ad assicurare che l’America vuole cooperare per la costruzione di un mondo migliore. America First non significa America Alone, ma come presidente degli Stati Uniti metterò sempre gli interessi del mio Paese davanti a tutto, come dovrebbero fare tutti i leader politici». Questo il messaggio di Donald Trump dal World Economic Forum, nel giorno più atteso a Davos.
E ancora: «Questo è il momento migliore per investire in America, abbiamo tagliatole tasse, abbiamo tagliato la burocrazia, non c’ momento migliore per investire e assumere negli Usa».
A soli quattro giorni dal tradizionale discorso sullo Stato dell’Unione, Trump (con un consenso che galleggia ai minimi per un presidente) ha tenuto il suo intervento davanti al gotha della finanza, in pieno prime time per le tv Usa, parlando quindi anche ai cittadini americani.
L’intervento più atteso
La suspense per il discorso, alta sin dalla vigilia del World Economic Forum, è stata solo alimentata dalla breve apparizione e dalle dichiarazioni di giovedì, quando Trump aveva cercato di abbassare i toni su tutto: dal dollaro che va bene forte, alla Tpp che si potrebbe anche siglare se non fosse quell’accordo «disastroso» che è, fino al negoziato sul Nafta con Canada e Messico, che ha tutte le carte in regola per avere successo.
«Meglio gli accordi bilaterali»
Anche oggi ha ribadito che gli Usa sono pronti a riprendere i negoziati sul Tpp, ma che preferiscono accordi bilaterali. Sul commercio, Trump ha ribadito che non può esserci commercio «libero» se non è anche «equo» e «reciproco». Occorrono allora riforme per impedire a qualcuno (la Cina) di trarre ingiusti vantaggi con «furto della proprietà intellettuale, sussidi, società pubbliche».
Il presidente ha poi celebrato quello che considera il suo grande successo, il taglio delle tasse, che ha consentito a tante imprese americane «di distribuire bonus ai loro dipendenti», grazie ai risparmi che avranno su questo fronte. Trump ha poi sottolineato che in un anno la Borsa di New York ha battuto 84 volte i suoi record.
I temi di politica estera
Sulla politica internazionale, il presidente ha ripetuto l’invito ai partner della Nato a fare la loro parte in termini di spese militari. E ha ricordato i risultati ottenuti contro l’Isis, ribadendo l’impegno Usa a denuclearizzare la Corea del Nord ed evitare che l’Afghanistan torni a essere un santuario del terrorismo. «Per difendere il nostro Paese – ha detto – farò tutto il necessario, compresa la riforma del nostro sistema di immigrazione. Abbiamo bisogno di selezionare chi entra nel nostro Paese sulla base del contributo che può dare». La chiave per combattere la povertà, ha detto, «è assicurare a tutti una busta paga». Trump ha poi rivolto un appello «ai potenti del mondo presenti qui davanti a me, usiamo il nostro potere per aiutare il popolo».
Non poteva mancare una carezza ai media: «Da imprenditore, ho sempre avuto una buona stampa, è solo quando sono diventato un politico che mi sono accorto quanto i giornalisti siano cattivi e fake».
Il successo di Schwab
E per chiudere, Trump si è autodefinito la «cheerleader dell’America».
Il padrone di casa, l’economista e fondatore del Forum, Klaus Schwab, si è goduto il clamoroso successo della sua scommessa: invitare il presidente sovranista nel sancta sanctorum del globalismo, anche concedendogli una fantastica occasione per uno spot autopromozionale. La presenza di Trump ha catturato l’attenzione del mondo, eclissando i pur acclamati interventi della cancelliera Angela Merkel e del presidente francese Emmanuel Macron.
Ieri sera, alla cena con con i Ceo presenti a Davos, Trump ha appoggiato un braccio sulle spalle del direttore del’FmiChristine Lagarde, affermando: «Prima mi odiava, ma adesso mi ama». E poi si è chiesto perché mai gli Stati Uniti non possono avere un tasso di crescita del 7% come quello dell’India.
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MARCO VALSANIA, ILSOLE24ORE.COM –
Le parole sono risuonate concilianti nella grande sala di Davos. Ma più dei discorsi presto conteranno le azioni. E qui il messaggio al mondo è assai meno chiaro o facilmente rassicurante.
L’intervento di Donald Trump al Forum in Svizzera è stato una compilation delle frasi forse meno controverse della sua presidenza. Hanno dipinto la “sua” America come un Paese aperto al business e innovativo, sostenuto come non mai da riforme delle tasse e delle regolamentazioni. Un Paese a favore del libero scambio purchè sia giusto, di accordi anche con i Paesi del Tpp (Partenariato Trans Pacifico) dal quale si è ritirato. Nell’espressione che ha scandito con enfasi: America First non significa America da sola. Quando gli Stati Uniti crescono, il mondo cresce.
Calato il sipario a Davos, al ritorno alla Casa Bianca Trump dovrà però rispondere con i fatti a un interrogativo di fondo, su un terreno essenziale per la globalizzazione e i rapporti internazionali , interscambio e economia. Se il suo è un cammino foriero di guerre commerciali e rotture, oppure di controllati conflitti “a bassa intensità”, d’una bellicosità in nome di interessi nazionali, magari sul filo del rischio, a volte controproducente e aggravata da inesperienza.
Le opportunità per chiarirlo incombono: dopo i recenti dazi imposti su pannelli solari e elettrodomestici, l’agenda dell’amministrazione entro l’estate è fitta di dispute potenzialmente più gravi, da strappi o revisioni del Nafta a sanzioni su alluminio e acciaio, fino a rappresaglie sulla proprietà intellettuale. In questi e altri casi, la Casa Bianca potrà scegliere corsi più o meno aggressivi, più o meno severi e allargati a partner e avversari.
Uno dei problemi, oggi, è tuttavia proprio nelle parole. L’amministrazione è prona a retorica e gesti contraddittori, che minacciano di diventare essi stessi seri ostacoli alla diplomazia necessaria a governare un mondo interconnesso e interdipendente. Alla vigilia di Davos, Trump ha firmato in pompa magna discutibili dazi e poi negato che ci siano “trade wars”. Ai margini del Forum, prima del tranquillo discorso del presidente, il suo segretario al Commercio Wilbur Ross ha inneggiato agli americani che stanno salendo “sulle barricate”. E quello al Tesoro Steve Mnuchin ha spezzato un tabù del suo Ministero - e innervosito i mercati - incoraggiando l’indebolimento del dollaro come benefico per l’export statunitense. Una domanda resta così in cerca di risposta, più urgente che mai: chi è davvero e che cosa vuole Donald Trump?
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CORRIERE.IT –
Trump: «Disponibili ad accordi bilaterali con ogni paese»
«Gli Stati Uniti sono pronti a negoziare accordi commerciali bilaterali con tutti i paesi. Questo riguarda anche gli 11 paesi del Tpp (accordo transpacifico da cui gli Usa sono usciti, ndr), che sono molto importanti. Siamo disponibili a negoziare individualmente, o anche a gruppi, se questo rientra nei nostri interessi». Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, a Davos.
14:46
Dalle file dei giornalisti coro di "buuuh" per l’attacco di Trump ai media
Un coro di `buuuh´ di protesta piuttosto forte si è levato dalle file dei giornalisti presenti nella sala dove Donald Trump, nel suo discorso al Forum economico mondiale di Davos, ha fortemente criticato la stampa accusandola di «fake news».
14:45
Trump: «Con Hillary la Borsa avrebbe fatto -50%,con me +50»
«Se avessero vinto i miei oppositori invece di un rialzo del 50% avremmo avuto un ribasso vicino al 50%, posso dirlo essendo un businessman»: lo ha detto il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, spiegando che i Democratici avrebbero «imposto nuove norme in modo massiccio».
14:35
Trump: «Da politico ho capito che i media possono mentire spesso»
«Finché non sono entrato in politica non ho realizzato quanto i media possono dare fake news». Lo ha detto il presidente Usa Donald Trump nel suo intervento al forum di Davos, tra mugugni di disapprovazione.
14:30
Trump a Davos ringrazia i presenti ma anche il `popolo´
«Grazie a tutti voi presenti» ma anche «grazie al popolo» e ai «lavoratori, sono loro che fanno grande il paese». Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, a conclusione del suo discorso al Forum economico mondiale.
14:28
Trump: «Le regole dell’immigrazione Usa sono ferme al passato»
Il sistema che regola l’immigrazione negli Usa «è fermo al passato» e "ora in poi chi entra verrà selezionato in base alla sua capacita" di contribuire al benessere economico degli Usa. Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.
14:27
Trump: «Non tollereremo più pratiche scorrette commercio»
«Gli Stati Uniti non tollereranno più pratiche scorrette nel commercio internazionale». Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, durante il suo intervento al Forum economico mondiale a Davos.
14:24
Trump: «Serve un sistema commerciale giusto e reciproco»
«Ripristineremo l’integrità del sistema commerciale. Solo insistendo su un commercio giusto e reciproco possiamo creare un sistema che funziona non solo per gli Usa ma per tutti i Paesi». Lo ha detto Donald Trump intervenendo a Davos.
14:21
Trump: «America first, ma non vuole dire America sola»
«Venite in America. Io credo nell’America e la metterò sempre al primo posto. Ma non significa America alone». Lo ha detto il presidente Usa Donald Trump nel suo intervento al forum di Davos.
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REPUBBLICA.IT –
Un commercio libero e aperto, certo, ma anche "giusto" ed "equo". È stato questo il cuore del discorso di quindici minuti di Donald Trump al Forum economico mondiale a Davos. In cui ha detto: "America First non vuol dire America Alone", ovvero sola, isolata.
Il presidente americano, che ha elencato i traguardi raggiunti in un anno di governo, ha chiarito che gli Stati Uniti non tollereranno più "furti della proprietà intellettuale", né "abusi" sul commercio, vale a dire gli enormi surplus di Paesi come la Cina o la Germania.
Gli Usa, insomma, sono pronti a fare affari con il resto del mondo, come dimostra la foltissima delegazione governativa che accompagna Trump a Davos e il suo esordio ieri a una cena con decine di top manager, ma lo vogliono fare alle loro condizioni.
Quella di Trump non è certo la classica ’charming offensive’ alla platea di banchieri, investitori, rentiers e politici di tutto il mondo - come ad esempio quella avanzata da Emmanuel Macron nel suo lunghissimo discorso qui - ma è stato meno aggressivo di quanto temuto da qualcuno.
I termini "giusto" ed "equo" riferiti al commerrcio mondiale non sono nuovi: nel primo semestre di presidenza Trump, la sua amministrazione si battè per inserire quei due termini nei comunicati finali del G20 tedesco e del G7 italiano. E tentarono anche di cancellare un passaggio che accompagna da sempre i comunicati finali dei "caminetti" dei grandi: quello del no al protezionismo.
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DRAGHI SU TRUMP - REPUBBLICA.IT –
"Diversi membri" del Consiglio direttivo hanno espresso preoccupazione per i recenti segnali degli Stati Uniti sulle proprie politiche. Lo ha detto il presidente della Bce Mario Draghi in conferenza stampa a Francoforte dopo la riunione del consiglio direttivo della banca centrale. E ha precisato: "Questa preoccupazione andava oltre il semplice tasso di cambio e riguardava lo stato generale delle relazioni internazionali in questo momento. Se ciò dovesse portare a una stretta di politica monetaria ingiustificata e che non è giustificata, allora dovremmo ripensare alla nostra strategia".
Il riferimento è alle ultime affermazioni del segretario al Tesoro Stephen Mnuchin su cambi e protezionismo. Il presidente della Bce ha ribadito come "parte della recente volatilità" sul mercato dei cambi sia stata provocata da un "linguaggio che non riflette le condizioni su cui siamo d’accordo".
Draghi, parlando ai giornalisti, ha fatto due volte riferimento alla dichiarazione giunta al termine del vertice di ottobre 2017 del Fondo Monetario Internazionale in cui i partecipanti di impegnavano "a non attuare svalutazioni competitive e a non fissare tassi di cambio per aumentare la competitività".
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ADNKRONOS –
"Abbiamo assistito alla resurrezione di un’America forte e prospera: non c’e’ stato momento migliore per investire, costruire e crescere negli Stati Uniti. Siamo di nuovo competitivi". Lo ha detto Donald Trump nel discorso al World Economic Forum di Davos rivendicando come le sue riforme, il taglio "massiccio delle tasse, l’eliminazione di inutili regolamentazione e burocrazia", ha creato "il momento migliore per fare affari in America". "Non possiamo avere un commercio libero ed aperto se alcuni Paesi sfruttano il sistema alle spese degli altri - dice -. Noi sosteniamo il libero commercio, ma deve essere giusto e reciproco. Alla fine un commercio non equo ci minaccia tutti". "Venite in America", è l’appello rivolto dal presidente Usa ai leader del mondo dell’economia e della finanza che partecipano al forum di Davos. "America first - ha chiarito Trump - non significa America da sola", aggiungendo che la prosperità americana aumenterà posti di lavoro in tutto il mondo.
"Quando ho deciso di venire a Davos - ha aggiunto il presidente Usa - non ho pensato in termini di elite o globalisti. Ho pensato in termine di molte persone che vogliono investire molto denaro e che stanno tornando ad investire negli Stati Uniti". "Abbiamo assistito alla resurrezione di un’America forte e prospera: non c’e’ stato momento migliore per investire, costruire e crescere negli Stati Uniti. Siamo di nuovo competitivi". E ancora: "Dopo che ho annunciato che venivo a Davos ci sono stati tutti quegli articoli sulle elite, i globalisti e gli aerei privati - ha aggiunto riferendosi al fatto che i media hanno sottolineato la contraddizione di un presidente eletto con un manifesto populista che va al raduno delle elite - ma non c’entra niente, si tratta di invitare a venire in America, investire i vostri soldi, creare posti di lavoro".
Nel rivendicare i successi della sua politica economica, Trump ha enfatizzato soprattutto i risultati positivi, e che sarebbero arrivati in netto anticipo sulle previsioni, dei drastici tagli fiscali alle corporation, con il boom di bonus dati ai dipendenti. "Quello che è successo è veramente speciale - ha detto - quando abbiamo visto quello che stava succedendo, non dico che sono stati una totale sorpresa, ma alcuni hanno annunciato molto presto che avrebbero pagati migliaia e migliaia di dollari alle persone che lavorano per le loro compagnie". Citando AT&T ed altre mega corporation americane, Trump ha affermato che "ci sono 300mila, 400mila, 500mila persone che lavorano per queste compagnie ed all’improvviso diventa un bellissimo effetto cascata con così tante compagnie che partecipano".
Trump è tornato, poi, su uno dei suo cavalli di battaglia. "Da imprenditore sono stato sempre trattato bene dalla stampa, ma da quando sono diventato politico ho realizzato quanto cattiva, maligna possa essere". Dalla platea dei delegati di Davos si sono alzati dei fischi, mentre "le telecamere cominciavano a spegnersi".
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Davos: Stiglitz, discorso Trump da venditore auto usate =
(AGI) - Davos, 26 gen - Un discorso senza visione, da venditore di auto usate. Cosi’ il premio Nobel americano Joseph Stiglitz, definisce l’intervento del presidente Usa Donald Trump al World International Forum. "Trump e’ riuscito a fare un discorso breve, quindi non ha potuto danneggiare se stesso o il Paese come avrebbe fatto se fosse stato piu’ lungo. E’ stato il discorso che potevi aspettarti da un venditore d’auto usate" spiega osservando che il presidente americano "ha cercato di ’vendere’ il Paese, invece di essere un leader con una visione su dove dovrebbe andare il mondo. Quindi molto deludente, soprattutto se confrontato con Justin Trudeau e Emmanuel Macron o Xi lo scorso anno. Mancano la leadership e l’ambizione", aggiunge l’economista. "E’ stato solo ’America First’. Non ha detto nulla sulla poverta’, sul cambiamento climatico e sul calo dell’attesa di vita in America", conclude. (AGI) Pit 261859 GEN 18 NNNN
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Trump sfoggia un ’45’ sul polsino, come 45/mo presidente Usa
L’inusuale ricamo in evidenza nelle foto al forum di Davos (ANSA) - ROMA, 26 GEN - Al posto delle solite iniziali un ’45’ in numeri romani, come quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti: è l’inusuale ricamo sfoggiato da Donald Trump sul polsino sinistro della sua camicia, un dettaglio colto dai fotografi durante il forum di Davos.(ANSA). LSS 26-GEN-18 17:56 NNNN
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FEDERICO FUBINI, CORRIERE DELLA SERA 26/1 –
Sono le sette di sera quando diventa chiaro che questo è il solito, vecchio Donald Trump. Prima era prevalsa l’illusione che l’arrivo al centro congressi di Davos, il castello delle convenzioni, bastasse a rendere questo presidente americano un po’ più come gli altri: meticoloso, cauto nel parlare perché conscio del suo potere, attento al copione.
Invece Trump a Davos il copione lo ha gettato per terra, subito. Quando dopo le sei salgono nella sua stanza al secondo piano del Centro Congressi alcuni «business leader» — i capi delle grandi aziende — l’impressione di normalità dura pochi secondi. Il presidente ha davanti a sé un fascio di documenti preparati dallo staff sui temi da trattare. Ma invece di consultarli, li impugna e li scaglia in terra davanti al gruppo di manager. Lui preferisce sempre una lunga tirata scomposta sui suoi soliti temi: più o meno quello che si può leggere ogni giorni nei suoi tweet. Alcuni «business leader», alla fine, escono sconcertati.
Può esserci del metodo nella follia di Trump e anche molta voglia di spiazzare. Perché poi sulla sostanza almeno ieri il presidente è stato invece più convenzionale di quanto gli venga riconosciuto: alla Cnbc ha riaffermato la dottrina del dollaro forte appena messa in dubbio dal suo stesso segretario del Tesoro, Steven Mnuchin, ha aperto all’idea di rientrare nel patto commerciale dell’America del Nord e persino in quello del Pacifico.
Trump a Davos sa che può prendersi qualche libertà. Lo ha visto subito con i suoi occhi. Quando verso le 14 è arrivato dall’aeroporto di Zurigo — l’Air Force One parcheggiato fra le centinaia di jet privati dei delegati di Davos — l’atmosfera nel centro congressi è cambiata all’improvviso. La folla di multimilionari e economisti ha dimenticato di colpo le chiacchiere sul Bitcoin, il protezionismo e i mali del Big Tech. Si sono tutti trasformati in adolescenti davanti a una rockstar: centinaia di braccia tese sopra le teste, smartphone in pugno, pur di strappare una foto dell’uomo con il ciuffo arancione.
Lui, rosso in viso, avvolto in un cappotto nero, ha salutato con piglio salendo le scale. Dietro di lui lo stuolo di una sterminata delegazione che qui a Davos include il genero Jared Kushner. È a quel punto che Trump si è chiuso al secondo piano e ha iniziato a ricevere, fra i leader presenti, solo quelli per lui più facili.
Alle tre sale nelle sue stanze la premier di Londra Theresa May, mentre i fedelissimi di Trump si aggirano lì intorno in attesa dei cocktail. C’è Mnuchin, ex banchiere Goldman Sachs e produttore di Hollywood, in abito blu e grossi scarponi da montagna. Appena lo vede, il giovane neo-ministro delle Finanze olandese Wopke Hoekstra lo abborda: si presenta, vuole un appuntamento a Washington, il ministro di Trump sorride cortese e glielo promette con una confidenza: «Sa, io vengo dal settore privato — gli fa —. Ma ormai in questa amministrazione dopo sei mesi sei un veterano».
Verso le 15.30 esce May e allora sale le scale verso le stanze di Trump, circondato dalla scorta, il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Anche il collega canadese Justin Trudeau passa di là, raggiante, bello come un attore, unico leader a restare tre giorni a Davos, segno forse che tutto va così liscio a casa che il suo contributo non è richiesto. Lui Trump non lo vedrà. Proprio a quell’ora, da Francoforte, Mario Draghi sta confessando la sua preoccupazione «sullo stato delle relazioni internazionali», ma qui a Davos le parole del presidente della Banca centrale europea arrivano attutite. Chissà se le ha già lette Gary Cohn, l’ex presidente di Goldman e oggi consigliere di Trump che si aggira massiccio, scuro in volto. O Dina Powell, anche lei ex Goldman, che ha lasciato dall’amministrazione Trump in dicembre, non figura nella delegazione Usa, eppure gode qui di un accesso apparentemente senza limiti alle stanze del capo.
Ma ormai è tardi, tempo di iniziare la cena con i «business leader» europei. Nelle presentazioni, ciascuno di loro sottolinea quanti posti di lavoro ha creato in America. Trump sorride. Non c’è traccia di un solo foglio davanti a lui.
Sono le sette di sera quando diventa chiaro che questo è il solito, vecchio Donald Trump. Prima era prevalsa l’illusione che l’arrivo al centro congressi di Davos, il castello delle convenzioni, bastasse a rendere questo presidente americano un po’ più come gli altri: meticoloso, cauto nel parlare perché conscio del suo potere, attento al copione.
Invece Trump a Davos il copione lo ha gettato per terra, subito. Quando dopo le sei salgono nella sua stanza al secondo piano del Centro Congressi alcuni «business leader» — i capi delle grandi aziende — l’impressione di normalità dura pochi secondi. Il presidente ha davanti a sé un fascio di documenti preparati dallo staff sui temi da trattare. Ma invece di consultarli, li impugna e li scaglia in terra davanti al gruppo di manager. Lui preferisce sempre una lunga tirata scomposta sui suoi soliti temi: più o meno quello che si può leggere ogni giorni nei suoi tweet. Alcuni «business leader», alla fine, escono sconcertati.
Può esserci del metodo nella follia di Trump e anche molta voglia di spiazzare. Perché poi sulla sostanza almeno ieri il presidente è stato invece più convenzionale di quanto gli venga riconosciuto: alla Cnbc ha riaffermato la dottrina del dollaro forte appena messa in dubbio dal suo stesso segretario del Tesoro, Steven Mnuchin, ha aperto all’idea di rientrare nel patto commerciale dell’America del Nord e persino in quello del Pacifico.
Trump a Davos sa che può prendersi qualche libertà. Lo ha visto subito con i suoi occhi. Quando verso le 14 è arrivato dall’aeroporto di Zurigo — l’Air Force One parcheggiato fra le centinaia di jet privati dei delegati di Davos — l’atmosfera nel centro congressi è cambiata all’improvviso. La folla di multimilionari e economisti ha dimenticato di colpo le chiacchiere sul Bitcoin, il protezionismo e i mali del Big Tech. Si sono tutti trasformati in adolescenti davanti a una rockstar: centinaia di braccia tese sopra le teste, smartphone in pugno, pur di strappare una foto dell’uomo con il ciuffo arancione.
Lui, rosso in viso, avvolto in un cappotto nero, ha salutato con piglio salendo le scale. Dietro di lui lo stuolo di una sterminata delegazione che qui a Davos include il genero Jared Kushner. È a quel punto che Trump si è chiuso al secondo piano e ha iniziato a ricevere, fra i leader presenti, solo quelli per lui più facili.
Alle tre sale nelle sue stanze la premier di Londra Theresa May, mentre i fedelissimi di Trump si aggirano lì intorno in attesa dei cocktail. C’è Mnuchin, ex banchiere Goldman Sachs e produttore di Hollywood, in abito blu e grossi scarponi da montagna. Appena lo vede, il giovane neo-ministro delle Finanze olandese Wopke Hoekstra lo abborda: si presenta, vuole un appuntamento a Washington, il ministro di Trump sorride cortese e glielo promette con una confidenza: «Sa, io vengo dal settore privato — gli fa —. Ma ormai in questa amministrazione dopo sei mesi sei un veterano».
Verso le 15.30 esce May e allora sale le scale verso le stanze di Trump, circondato dalla scorta, il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Anche il collega canadese Justin Trudeau passa di là, raggiante, bello come un attore, unico leader a restare tre giorni a Davos, segno forse che tutto va così liscio a casa che il suo contributo non è richiesto. Lui Trump non lo vedrà. Proprio a quell’ora, da Francoforte, Mario Draghi sta confessando la sua preoccupazione «sullo stato delle relazioni internazionali», ma qui a Davos le parole del presidente della Banca centrale europea arrivano attutite. Chissà se le ha già lette Gary Cohn, l’ex presidente di Goldman e oggi consigliere di Trump che si aggira massiccio, scuro in volto. O Dina Powell, anche lei ex Goldman, che ha lasciato dall’amministrazione Trump in dicembre, non figura nella delegazione Usa, eppure gode qui di un accesso apparentemente senza limiti alle stanze del capo.
Ma ormai è tardi, tempo di iniziare la cena con i «business leader» europei. Nelle presentazioni, ciascuno di loro sottolinea quanti posti di lavoro ha creato in America. Trump sorride. Non c’è traccia di un solo foglio davanti a lui.
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MASSIMO GAGGI, CORRIERE DELLA SERA 26/1 –
Donald Trump a Davos è molto più della rivincita dell’«alieno» mai invitato per decenni nel tempo del capitalismo dialogante e globalizzato perché considerato più un uomo di spettacolo che un imprenditore. Quello che oggi arringherà, provocherà, corteggerà il mondo dell’industria e della finanza, gli accademici e i principi della Silicon Valley, è un presidente artefice di svolte pericolose, destinate ad avere effetti pesanti nel lungo periodo su ambiente, debito pubblico, commercio e ruolo internazionale degli Usa. Ma le cose che ha fin qui fatto e detto nell’immediato gli danno, almeno sul piano economico, una forza che un anno fa nessuno avrebbe mai pensato di attribuirgli.
Il nemico numero uno dei trattati di free trade arriva nell’acropoli della globalizzazione quando quel processo vive una crisi profonda. Leade r asiatici ed europei, banchieri e imprenditori continuano a sostenerla, anche perché è stata per decenni volano di sviluppo, sia pure con enormi squilibri. Ma alcuni degli stessi intellettuali che vent’anni fa furono gli apripista della nuova era, adesso ne riconoscono la crisi profonda e, forse, irreversibile.
Certo, se isola l’America dietro il muro del protezionismo, Trump rischia di farle perdere la leadership planetaria a vantaggio della Cina che dialogherà con Ue e India prescindendo da Washington. Ma l’uomo di Davos si sente davvero rassicurato quando, com’è avvenuto l’anno scorso, a proporsi come nuova guida del mondo globalizzato è un regime come quello cinese permeato di autoritarismo tecnologico? O quando, tre giorni fa, ha sentito il premier indiano Modi denunciare «le forze del protezionismo che alzano la testa contro la globalizzazione, decise a capovolgere il suo flusso naturale», dimenticando che lui stesso ha appena imposto nel suo Paese forti restrizioni alle importazioni per obbligare le imprese straniere a produrre di più in India?
Certo, a prendersela con le lavatrici non solo cinesi ma anche dell’alleato sudcoreano, Trump non ci fa una gran bella figura. E, magari, tra vent’anni gli americani scopriranno di aver imboccato un vicolo cieco se, mentre lui mette i bastoni tra le ruote ai cinesi sull’acciaio e l’alluminio, Pechino strapperà agli Usa (come rischia di avvenire tra non molto nell’apparente disinteresse dell’attuale Amministrazione) la leadership nell’intelligenza artificiale, nelle biotecnologie, nella genetica.
Intanto già oggi l’ establishment liberista insorge contro l’elogio del dollaro debole fatto in modo, a dir poco irrituale, dal suo ministro del Tesoro Steven Mnuchin (poi corretto da Trump). Col Wall Street Journal che lo bacchetta ricordandogli che Reagan è stato il custode di una valuta forte mentre le ere del dollaro in ritirata sono state quelle di presidenti deboli come Carter.
Per adesso Trump non si cura di tutto ciò: gli basta l’improvviso coro di consensi di grandi imprenditori scodinzolanti ai quali ha appena regalato centinaia di miliardi sotto forma di sconti sulle tasse. Non tanto perché vuole essere riconosciuto come capobranco del grande capitale quanto perché molti di loro lo stanno ripagando spostando produzioni dal Messico o dall’Asia negli Stati Uniti. Investono in nuovi impianti, annunciano nuove assunzioni, concedono bonus e aumenti retributivi ai dipendenti.
È sicuramente questa la cosa che conta di più per la strategia del presidente.
Parlare di strategie per un The Donald sempre pronto a estrarre un tweet dalla fondina può apparire azzardato. C’è indubbiamente un Trump umorale, rancoroso, narcisista, permaloso, volato a Davos sulle ali di un desiderio di rivalsa. Ma sembra anche esserci sempre più, soprattutto ora che i personaggi più controversi sono usciti dal team del presidente, un Trump che, pur lunatico e imprevedibile, si è posto un obiettivo preciso di medio-lungo periodo: vincere tra dieci mesi le elezioni di mid term capovolgendo i pronostici che oggi danno i repubblicani in forte arretramento.
Poco popolare nel Paese, ancora detestato da molti nel suo stesso partito, sempre con la spada di Damocle dell’inchiesta del procuratore Mueller sul Russiagate che gli pende sulla testa, Trump conta di farcela scippando ai democratici il ruolo di paladini dell’occupazione e dei salari. Aiutato in questo, più o meno volontariamente, proprio dagli imprenditori, molti dei quali progressisti come quelli di Apple e Starbucks o un tempo molto vicini a Obama e ai Clinton come Marchionne o i proprietari di Walmart. Se ce la fa, niente più rischio impeachment e partito repubblicano costretto a trattarlo come il Salvatore.
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ANDREA FRANCESCHI, IL SOLE 24 ORE 26/1 –Il rapporto tra i mercati e l’amministrazione Trump è stato finora idilliaco. Dal giorno della sua vittoria nella corsa alla Casa Bianca Wall Street ha guadagnato il 34% aggiornando i massimi storici e facendo da traino a tutte le altre Borse mondiali. Gli investitori hanno evidentemente guardato al bicchiere mezzo pieno dei maxi-sgravi fiscali varati dalla nuova amministrazione più che a quello mezzo vuoto del rischio protezionismo. È anche vero che se sulle tasse Trump è già passato dalle parole ai fatti, con il varo della riforma fiscale, sul tema del commercio finora si è mosso solo a colpi di misure spot come i dazi su lavatrici e pannelli fotovoltaici annunciati nei giorni scorsi. Oltretutto non si è vista per il momento alcuna seria contromisura da parte degli altri Paesi. Finché non c’è escalation che senso ha fasciarsi la testa? pensa evidentemente buona parte del mercato.
Il tema non andrebbe comunque preso sottogamba perché se questo scenario dovesse concretizzarsi c’è il rischio di serie ripercussioni sulla stabilità dei mercati finanziari. Questa almeno è l’opinione degli analisti di BofA Merrill Lynch che, in un recente report sul mercato dei bond, hanno indicato nel “protezionismo” e più in generale nel “populismo” uno dei fattori che potrebbero far scoppiare quella che loro, senza troppi giri di parole, chiamano la “bolla delle banche centrali”. Con questo termine gli analisti si riferiscono chiaramente all’ipervalutazione del mercato obbligazionario globale a seguito dei colossali acquisti (Quantitative easing) messi in atto dalle banche centrali negli ultimi dieci anni. Una strategia, quella dello stimolo monetario, che ha dato i suoi risultati visto che l’economia è in ripresa in tutto il mondo. Come ogni cura che si rispetti anche quella monetaria necessita tuttavia un’interruzione graduale per evitare effetti collaterali(ad esempio un’impennata incontrollata dei tassi). Non sono mancati negli ultimi anni episodi di volatilità inattesa ma nel complesso oggi le banche centrali hanno imparato che la strategia migliore per gestire questa transizione è quella di essere estremamente prevedibili. Per il momento questo equilibrio ha retto bene (la volatilità è ai minimi storici) ma le incognite sono dietro l’angolo. Una di queste è sicuramente l’inflazione. Ed è qui che entra in gioco il protezionismo. Se la globalizzazione ha spinto al ribasso i prezzi(si pensi all’invasione di prodotti cinesi a basso costo) la guerra delle tariffe ha l’effetto opposto (i dazi fanno rincarare i prodotti importati costringendo chi li rivende ad aumentare i prezzi).
Il protezionismo può far salire l’inflazione. Non quella buona (l’aumento dei salari) ma quella cattiva (il carovita). Una spirale pericolosa perché potrebbe innescare un’ondata incontrollata di vendite sul mercato obbligazionario sull’aspettativa che le banche centrali, il cui obiettivo è prima di tutto la stabilità dei prezzi, mettano in atto la stretta monetaria prima del previsto.
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Andrea Franceschi