La Stampa, 26 gennaio 2018
Nella biofabbrica dei cloni che vogliono salvare i diabetici. Cesare Galli lavora a Cremona ed è il massimo esperto italiano di organismi fotocopia
Se è vero che siamo vicini alla possibilità di clonare gli esseri umani, almeno tecnicamente, è altrettanto vero che un mondo di «copie» create in laboratorio, oltre che inutile, avrebbe conseguenze apocalittiche.
Con la fine della variabilità genetica umana la nostra stessa specie alla fine si estinguerebbe. Tuttavia, l’idea di clonare in laboratorio parti di esseri umani da utilizzare come «pezzi di ricambio», quando qualcosa negli originali non va, ha sfiorato molti gruppi di ricerca. Ma ogni tentativo è fallito. «Per primi ci hanno provato i giapponesi», dice Cesare Galli, massimo esperto italiano in clonazione e uno degli scienziati che ha lavorato con il «papà» della pecora Dolly, Ian Wilmut. «I ricercatori hanno provato a inserire cellule umane in embrioni di animali clonati in modo da ottenere un pancreas a tutti gli effetti compatibile con gli umani. Ma questo mix di cellule umane e cellule animali – continua – ha prodotto chimere che non hanno portato allo sviluppo dell’organo». Ci hanno provato anche negli Usa, ma il risultato è stato lo stesso. «Il problema è che le cellule animali e quelle umane non interagiscono», aggiunge Galli. Un altro vicolo cieco è stato il tentativo ripopolare con cellule umane organi animali «decellularizzati». «Ci hanno provato in Svezia senza risultati rilevanti».
Rimarrebbe un’ultima strada, eticamente inaccettabile anche per i cinesi smaniosi di raggiungere un altro primato. Ed è quello di clonare esseri umani da «usare» all’occorrenza. Ecco perché la clonazione di animali è considerata l’unica via per esplorare le frontiere di questa tecnologia. Zhong Zhong e Hua Hua, le scimmiette, non sono gli unici animali «fotocopia» al mondo. L’esercito dei cloni è più numeroso. Ci sono cani, tori, cavalli, maiali, pecore e altri ancora. Anche l’Italia vanta un plotone di cloni di tutto rispetto. Anzi, proprio qui, nel campo della clonazione, sono stati raggiunti primati mondiali. Come la creazione del toro Galileo nel 1999 e della cavalla Prometea nel 2003.
La nostra fabbrica di cloni si trova a Cremona, nel laboratorio di Avantea, fondato da Galli. «Si va dai cavalli clonati da “originali” campioni che hanno uno scopo prettamente ludico ai maiali utili per la ricerca di nuove terapie e da utilizzare per ottenere organi da trapiantare in futuro negli esseri umani», sottolinea Galli. Ma quello che lo scienziato e il suo team stanno creando non sono solo «semplici» cloni. Sono maiali clonati e geneticamente modificati con la tecnica «Crispr», quella dell’editing genetico. «Cerchiamo di creare maiali i cui organi possono essere trapiantati negli umani senza il rischio di rigetto». I primi risultati li vedremo a breve: entro un anno, a Bruxelles, inizierà la prima sperimentazione sull’uomo in Europa di isole pancreatiche prelevate da maiali clonati e geneticamente modificati. «Le isole pancreatiche – precisa Galli – verranno impiantate sottocute in una sorta di scatoletta e dovrebbero aiutare i pazienti diabetici a produrre più insulina». Ma non è che l’inizio. «Vogliamo utilizzare organi “salvavita”, come il rene e il cuore, anche se le criticità sono ancora tante». I cloni geneticamente modificati, tuttavia, possono essere utilizzati anche come modelli di malattie per la ricerca. «Per l’Istituto zooprofilattico di Torino abbiamo clonato un maiale con la Sla».
Agli scienziati italiani va riconosciuto un merito doppio, considerato anche il contesto di rigide regole in cui si muovono. «Prima di clonare un animale dobbiamo seguire un iter lunghissimo e non sempre va a buon fine – conclude Galli -. È ovvio che così si disincentiva la ricerca a favore di laboratori che si trovano in altre parti del mondo. In Alabama, per citarne uno, un’azienda ha investito 100 milioni di dollari sugli xenotrapianti. A breve partiranno le prime sperimentazioni su pazienti terminali con reni, fegato, cuore e polmoni dei maiali clonati».