La Stampa, 26 gennaio 2018
Venezuela. Nelle roccaforti della rivoluzione dove resiste il sogno di Chavez
Miguel Suarez Barroso abbassa il vetro scuro della sua nuova Chery di un paio di dita, quel che basta per mostrare il Carnet de la Patria a un giovanissimo soldato che giocherella con il fucile e alza la sbarra che protegge l’ingresso della cittadella militare di Fuerte Tiuna. Trent’anni appena compiuti, giornalista, da due nell’ufficio stampa del presidente Nicolas Maduro.
Chi come lui lavora per lo Stato può comprare a un prezzo stracciato – circa quindici milioni di bolivares, al cambio parallelo 150 euro, venti volte meno del prezzo sul mercato libero – un appartamento in uno dei centocinquanta palazzoni rossi con connessione Internet e aria condizionata.
Siamo nella roccaforte della rivoluzione venezuelana, una città nella città abitata dalle famiglie di militari e burocrati che coltivano l’utopia della rivoluzione chavista, pronti a sostenere il presidente Maduro alle elezioni indette alla fine di aprile e bollate come «né libere né giuste» da Nikki Haley, ambasciatrice americana all’Onu.
Le lunghe file di auto nuove importate dalla Cina e i ragazzini che al tramonto giocano nei campetti di basket della cittadella militare sembrano quasi arrivare dal passato, prima che Caracas si trasformasse in una megalopoli con code infinite per comprare il pane o ritirare in banca somme ridicole, con le strade che dopo il tramonto si animano solo dei disperati che frugano nell’immondizia. Frutta e verdura non si trovano tutti i giorni nemmeno al Fuerte, ma la salsa di soia d’importazione cinese – da preferire al sempre più raro sale – e i preziosi barattoli di cioccolato in polvere stanno ben allineati sugli scaffali. Miguel ne afferra un paio e paga distrattamente, mentre recita la tiritera sui nemici del Paese che ogni sera il presidente ripete in tutte le trasmissioni radio e in tv, a reti unificate.
«Il cambio impazzito è colpa della guerra economica degli Stati Uniti e dell’Europa. Da mangiare non si trova perché i proprietari dei supermercati alzano i prezzi per arricchirsi sulla pelle del popolo» spiega Miguel, passeggiando davanti ai condomini sorvegliati ventiquattr’ore su ventiquattro dove vivono i rappresentati dell’Assemblea Costituente voluta da Maduro e che ha sostituito il Parlamento, in mano all’opposizione. «Quando ci sarà il Petro, il nostro Bitcoin, torneremo a essere il Paese più ricco del mondo».
La moneta virtuale
Il Petro è la nuova criptomoneta, presentata a gennaio dal governo, il cui valore dovrebbe dipendere dalle risorse naturali di cui il Paese è ricco: petrolio, oro, gas e metalli preziosi. Niente più mazzette di banconote che giorno dopo giorno valgono sempre meno, basterà il Carnet de la Patria, tesserina magnetica con dati personali e codice Qr. Comparso per la prima volta lo scorso dicembre, è indispensabile per poter ritirare la clap, provvista alimentare mensile non gratuita, ma a un prezzo controllato dal governo. Anche se tanti raccontano di non aver mai ricevuto nulla, il governo assicura di aver distribuito ai cittadini tesserati 500 mila bolivares come regalo di Natale.
Sul Correo del Orinoco – uno dei due giornali di governo in edicola a prezzo stracciato, quaranta volte meno che l’unico di opposizione rimasto – ogni giorno si aggiorna il calcolo dei tesserati. A inizio gennaio erano quattro milioni di persone, una settimana più tardi e dopo l’annuncio di un nuovo bonus, ribattezzato Bono de Reyes perché distribuito il sei gennaio, il doppio. Difficile stabilire quanto e se il numero sia gonfiato, ma certo il regime di Maduro scommette sulla possibilità di trasformare le regalie in voti, contando così il popolo della Gran Misión Vivienda Venezuela, il piano di edilizia popolare inaugurato da Chavez. In dieci anni sono stati costruiti, anche grazie alla collaborazione di Cina e Russia, più di due milioni di alloggi destinati alle famiglie più povere e ai sostenitori della rivoluzione bolivariana.
Il Comandante Eterno
A vegliare sulla città sono ancora gli occhi di Chavez, che spuntano dai murales per strada e sui muri rovinati dei palazzoni popolari. Ribattezzato «Comandante Eterno», il suo volto e le sue parole trasmesse e riportate all’infinito in ogni occasione ora torneranno anche sui social. In occasione delle elezioni è stato riattivato il suo account Twitter, così da «preservare il pensiero del comandante». A Caracas se ne parla al presente, come se non fosse morto cinque anni fa.
Leggenda vuole che fu lui, durante un volo in elicottero, a indicare il punto ideale per costruire Ciudad Caribia: sulla strada per l’aeroporto di La Guardia, a poco meno di un’ora di autostrada dal centro e arrampicata tra le colline che circondano la capitale. Nessuna sbarra all’ingresso, ma l’esercito controlla chi entra e chi esce da questo microcosmo di palazzine semplici ma ordinate, una piazzetta, giochi per i bimbi e uno stadio per il baseball ancora in costruzione.
C’è tutto, anche l’idea di costruire un’Università, tranne la possibilità di lavorare. Esclusa qualche estetista che lavora in casa e un paio di bancarelle di gallette e dolciumi, le oltre 100 mila persone che hanno ricevuto un appartamento dal governo vivono tra impieghi saltuari e la clap. Chi come Jennifer Amorez, 40 anni e una figlia di 20 che ha cresciuto sa sola, ha un lavoro come segretaria in città, deve prendere una navetta: ogni viaggio sono 700 bolivares. Dieci volte meno dei servizi di autobus cittadini, anche se di mese in mese il prezzo del biglietto cambia con l’inflazione e una corsa in metro sta ancora a 16 bolivares. «Non avevamo una casa, ma una baracca a Petare, con il pavimento di terra. Da quando Chavez mi ha dato questa casa, la mia vita è cambiata: ho trovato un posto sicuro dove crescere i miei figli».