Libero, 25 gennaio 2018
Libri di Shakespeare scritti da italiani
«Se un giorno si scoprisse che Dante era inglese, gli inglesi userebbero ogni mezzo possibile, compresa la pressione politica e la diplomazia, per rendere pubblica questa verità».
Così scrive Vito Costantini, che poi prosegue mostrando come nella realtà per gli italiani accade l’inverso: «Oggi abbiamo prove certe, e non una semplice ipotesi, che Michelangelo e Giovanni Florio, padre e figlio, furono gli autori delle opere firmate col nome d’arte William Shakespeare, (…) però gli italiani a differenza degli inglesi, sono un popolo in declino che ha perso la speranza e l’orgoglio, con scarso interesse per la cultura».
Quando ho letto (...) questa pagina di Costantini vi ho trovato espressi perfettamente gli stessi pensieri che erano stati suscitati in me dalla lettura, appassionata, dei volumi e degli studi che documentano in modo davvero esauriente ed entusiasmante l’italianità di Shakespeare, volumi e studi che sono rimasti e rimangono incredibilmente ignorati in Italia [per esempio i lavori di Saul Gerevini, Lamberto Tassinari, Corrado Panzieri, Vito Costantini, e molti altri].
Al contrario ripercorrendo questo stupefacente giallo letterario si scopre che per l’Inghilterra «l’affaire Shakespeare» è stato fin dall’inizio un affare di Stato (...). È una storia così clamorosa e piena di delicate conseguenze politiche che il professor Lamberto Tassinari cita un libro del 1769 da cui si evince che già allora «i dubbi sulla paternità delle opere di Shakespeare erano assai diffusi in Inghilterra»: quel libro secondo lui farebbe intuire addirittura una colossale «frode letteraria perpetrata per ragioni patriottiche». (...) I Florio portarono in Inghilterra Paese ancora ai margini della cultura europea e con una lingua allora sconosciuta a tutti, nel continente il grande Rinascimento italiano. Allora era quella italiana la cultura egemone nel mondo e l’italiano era la lingua colta internazionale. Nelle corti si imparava la nostra lingua: anche la futura regina Elisabetta, da giovane, studiò l’italiano e proprio Michelangelo Florio fu il suo precettore. (...)
IL VIVACE DI STRATFORD
È ovvio che di un gigante come Shakespeare l’Inghilterra sia profondamente orgogliosa: egli rappresenta nel mondo l’esempio massimo del genio inglese ed è quindi un vero e proprio pilastro della loro identità nazionale, oltretutto perché ne ha arricchito enormemente perfino la lingua. (...)
Perciò Shakespeare “deve” necessariamente essere inglese, senza che la minima ombra sfiori questa sua appartenenza nazionale. Ma (...). Non si trova un documento che possa identificare l’uomo di Stratford-onAvon (ufficialmente ritenuto il drammaturgo) con quello straordinario genio che visse a Londra e scrisse le opere di William Shakespeare.
Peraltro, questo nome appare diverse volte scritto “Shake-speare” col trattino, lasciando così intuire che si tratta di un nom de plume, qualcosa che allude alla penna (spear) agitata (shaked) contro l’ignoranza come si legge nella prima raccolta di tutte le opere teatrali del Bardo del 1623.
Il nome Shakespeare irrompe per la prima volta nel 1593 quando viene pubblicato il poemetto Venere e Adone. Saul Gerevini, nel libro William Shakespeare, ovvero John Florio: un fiorentino alla conquista del mondo, spiega che prima di quella data a Londra era del tutto sconosciuto e addirittura inesistente.
Per la narrazione ufficiale britannica è sempre più imbarazzante l’identificazione di Shakespeare con il vivace Will di Stratford-on-Avon, perché la sua biografia, peraltro poverissima di documenti come quella di qualsiasi popolano inglese del XVII secolo, è insignificante e del tutto inconciliabile con quella dell’artista che ha scritto l’Amleto. Basti dire che della sua morte, avvenuta il 23 aprile 1616 a Stratford-on-Avon, non si è accorto nessuno, nessuno lo ha celebrato, nessuno lo ha ricordato. Per nessuno a Londra e in Inghilterra è stata una notizia importante o significativa dal punto di vista artistico e intellettuale. Nel villaggio di Stratford, essendosi lui arricchito, aveva una certa posizione, ma fuori di lì era un signor nessuno.
«Da Londra» scrive Mark Twain «non venne nessuno; non ci furono componimenti poetici lamentosi, elegie, lacrime nazionali ci fu solo silenzio e nient’altro. Un contrasto stridente con quanto accaduto quando Ben Jonson e Francis Bacon e Spenser e Raleigh e gli altri insigni letterati dell’epoca di Shakespeare passarono a miglior vita!». Del resto, proviamo a fare l’identikit del grandissimo artista che ha concepito l’Amleto, Re Lear, Romeo e Giulietta, il Macbeth, l’Otello, La tempesta, tramite le sue opere: era un genio che con tutta evidenza padroneggiava molte lingue antiche e moderne, con un estro linguistico unico.
Era un intellettuale che aveva una straordinaria cultura umanistica e perfino giuridica e teologica, una conoscenza eccellente della storia e della letteratura greca e latina, uno che era ben esperto delle dinamiche di potere e degli intrighi di corte, e soprattutto aveva una conoscenza diretta e approfondita di moltissimi Paesi e luoghi fuori dall’Inghilterra, che descrive dettagliatamente, specialmente dell’Italia (dove sono ambientate gran parte delle sue opere) e soprattutto una conoscenza magistrale di tutta la letteratura italiana (mai tradotta fino ad allora in inglese), da Dante alla novellistica sua contemporanea. Tratteggiato l’identikit di questo gigante, è impossibile riconoscerlo nell’uomo di Stratford, attore/ impresario/uomo d’affari, con cui da quattrocento anni vuole identificarlo l’Inghilterra ufficiale.
Costui, che non è mai uscito dall’ Inghilterra, non risulta aver frequentato scuole o aver fatto studi di alcun genere, non risulta conoscesse lingue straniere e non risulta possedere nemmeno un libro. Ci restano solo alcune sue firme su dei documenti, tracciate con mano malferma e pure errate perché sbagliò perfino a scrivere il proprio nome e cognome (e tali firme sono le sole righe di scrittura che ci tramandano la sua calligrafia).
Quando a Londra sono state pubblicate le prime raffinatissime opere del misterioso Shakespeare, lui era ancora un giovanotto che non risulta abbia fatto studi a Stratford, dove parlava un dialetto che a Londra non era nemmeno del tutto comprensibile. (...) Non c’è un solo documento che ce lo mostri alle prese con diatribe intellettuali e in rapporto con dei libri. (...) Né un libro, né un manoscritto inedito o delle bozze, né fogli o appunti o lettere o suoi documenti scritti di alcun genere, né alcun riferimento a opere teatrali o poesie o a suoi libri pubblicati.
(...) Ma è anche chiaro, tuttavia, che l’uomo di Stratford deve aver avuto a che fare con il vero Shakespeare, cioè con il vero autore delle opere teatrali che rivoluzionarono il teatro inglese del tempo e la cultura di tutti i tempi.
Quantomeno fra i due vi fu una bella complicità perché è ovvio che il misterioso autore per varie e gravi ragioni non poteva apparire col suo vero nome, cosa che era a quel tempo normale sia perché si usavano pseudonimi sia perché le nuove opere teatrali venivano acquistate da una compagnia e diventavano sua proprietà. Ma ci sono pure altre ragioni più importanti. L’impresario di Stratford-on-Avon è stato lo “schermo” del vero Shakespeare, per accordo e convenienza di entrambi a quel tempo. Poi però è stato qualche establishment inglese che subito ha stabilito che quella doveva essere e restare per sempre la verità ufficiale.
Che facesse acqua da ogni parte è stato presto lampante. Lo rilevò più di un secolo fa anche Mark Twain il quale, a proposito del testamento dell’uomo di Stratford, scriveva: «Era fondamentalmente ed evidentemente il testamento di un uomo d’affari e non di un poeta».
LO DICE ANCHE BORGES
Henry James scriveva nel 1903: «Sono in qualche modo ossessionato dalla convinzione che il divino William sia l’impostura più grande e meglio riuscita mai commessa».
Perfino i giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti, in una sorta di divertissement intellettuale durato un ventennio, hanno dibattuto la questione dell’identità di Shakespeare arrivando nel 2009 alla conclusione che l’uomo di Stratford fu solo un prestanome. Chi è andato oltre, intuendo la possibile identità del “vero” autore delle opere shakespeariane è il grande Jorge Luis Borges che, nel 1979, azzardava un’ipotesi: «Shakespeare è diremmo il meno inglese degli scrittori inglesi. In generale gli Inglesi amano il sottinteso che permette loro di dire un po’ meno di ciò che potrebbero. Al contrario, Shakespeare aveva una tendenza all’iperbole nella metafora; così non sarebbe sorprendente scoprire che Shakespeare era, per esempio, italiano o ebreo»(...).
Borges ha centrato il bersaglio, perché il “vero” Shakespeare (...) è proprio italiano e proveniente da una famiglia di origini ebraiche: si tratta di Michelangelo e Giovanni Florio, padre e figlio.