Il Messaggero, 26 gennaio 2018
Ismail Kadare: «Da bambino copiai Macbeth tutto a mano»
Ha scritto Ismail Kadare: «La maggior parte dei regimi del mondo è stata, se non proprio dittatoriale, almeno molto dura. La letteratura si è abituata a questo. La letteratura autentica e le dittature sono incompatibili, lo scrittore è nemico naturale delle dittature». Poeta, romanziere, autore di saggi e sceneggiature, più volte candidato al Nobel, l’ottantunenne Ismail Kadare riceve sabato il premio Nonino. Il riconoscimento va al creatore di grandi narrazioni, aedo innamorato e critico del suo popolo, testimone degli orrori perpetrati dal totalitarismo tra realtà storiche e leggende che rievocano grandezze e tragedie del passato balcanico e ottomano.
L’ESILIO
Esule a Parigi dal tempo della dittatura «per non offrire i suoi servigi alla tirannide» (come scrive Claudio Magris), ispirandosi alle voci della tragedia classica e delle leggende popolari, l’albanese Kadare ha narrato vicende ora satiriche, ora fantastiche; si alternano conquiste e massacri, crudeltà e faide familiari, delazioni e tragedie, sfide lanciate dai morti contro i vivi e cavalieri che tornano dalla tomba per portare a termine le loro missioni. È riuscito a far comprendere i traumi di un Paese – la sua patria – troppo a lungo isolato, benché affacciato sull’Adriatico, ritenuto a torto lontano. Come nell’ultimo romanzo appena pubblicato in Italia La Bambola (La Nave di Teseo) che, ripercorrendo la sua storia, la sua educazione e «le ragioni del distacco voluto da un Paese e da una famiglia forti e segnanti», è anche un vero e proprio omaggio a sua madre.
INSICURA
Dice Kadare: «Piccola e fragile come cartapesta, è una donna sensibile, insicura, indebolita dal confronto austero con la tradizione. Così sviluppa negli anni un profondo complesso d’inferiorità intellettuale verso chi la circonda, vive con angoscia la passione di suo figlio emancipato, libero e indipendente, per i libri e la letteratura. Considera con crescente preoccupazione la sua carriera accademica poi letteraria, una strada che un giorno lo allontanerà da lei. Così la donna finisce per confessare il suo tormento in una lingua che in cui si cimenta goffamente, credendo di poter così attingere al livello intellettuale del figlio».
Un rapporto complesso che rispecchia «l’indicibile che governa la tensione più profonda, quella verso il nostro stesso sangue e la nostra terra». Nel romanzo emerge anche la formazione culturale e politica di Kadaré, il difficile rapporto/scontro con il regime di Hoxha in tutte le sue tappe: perquisizioni, minacce, lusinghe, confische, clandestinità. Lo scrittore evita i precetti edificanti del realismo socialista, i canoni nefasti, zeppi di errori positivi dell’estetica zdanoviana. Nei suoi romanzi prevalgono i toni allusivi, le forme metaforiche, un’ironia sottile sapientemente velata.
Ma la pressione spesso intollerabile del potere non serve a individuare meglio il proprio impegno, non si trasforma in una sorta di missione da compiere? Il potere con la sua abiezione e ambiguità non ha forse permesso paradossalmente di volare alto? Kadaré la pensa diversamente: «Esiste una teoria per cui la letteratura ha bisogno di soffrire. Ne dubito: è un preconcetto che bisogna mettere gli scrittori in difficoltà perché scrivano bene. Non penso che il potere o la dittatura o la repressione siano una condizione necessaria a stimolare la grande letteratura. È vero che la maggior parte dei regimi politici erano crudeli. Però è anche vero che i regimi di questo tipo sono capaci a volte di stimolare energie nascoste o latenti».
Ancora, alcuni anni di cui ne La bambola Kadare parla per piccoli tocchi, frammenti di ricordi, vecchie foto, aneddoti, sono anche quelli della sua formazione letteraria: «Ho letto Macbeth a dieci anni. Uno straordinario fascino: l’ho copiato tutto a mano. Tra gli scrittori, Shakespeare è il più grande. Fu dopo questa lettura che scoprii le tragedie di Eschilo, riflettendo sulla mia condizione di scrittore dissidente di fronte a uno stato totalitario». E, infine, il rapporto con Dante Alighieri che l’ha accompagnato per tutta la vita. Kadare cerca di riassumerlo quando parla delle segrete affinità che legano un’opera come la Divina Commedia alle traversie del suo popolo, segnato da secoli di guerre e occupazioni: «L’Albania è il paese ex comunista dove Dante è più studiato. Un amore stabile che non muta né per la politica, né per un’ occupazione. L’opera completa è stata tradotta tre volte durante gli anni del comunismo. Dante però entrava in conflitto con il regime. L’Inferno poteva far riaffiorare alla memoria i gulag e ciò lo rendeva poco gradito».
I CAMPI
Ma sfuggire a Dante è impossibile, è come sfuggire alla propria coscienza: «I campi di concentramento, la caccia ai dissidenti, le prigioni, gli ospedali psichiatrici, le torture, e anche l’esilio, erano condizioni che facevano riflettere, dolori inenarrabili potevano trovare risonanza ed eco nei canti danteschi». E, come Kadare ha scritto nel saggio «Dante, l’inevitabile» (Fandango), i segni di questa fatale attrazione di Dante si possono trovare oggi che i battelli della speranza e della disperazione solcano l’Adriatico, stanno (ha ben scritto Marco Lodoli parlando del libro) nei nomi delle ragazze annegate, «tante Beatrici ricordate nelle targhe sul lungomare, tante vite che cercavano la pace in terra e ora si trovano in Paradiso».