la Repubblica, 26 gennaio 2018
Qatar, lo scrigno sotto assedio
DOHA A settembre, durante uno degli incontri solitamente soporiferi della Lega Araba al Cairo, i diplomatici sauditi e qatarioti si sono scambiati epiteti al vetriolo come «cane rabbioso» e accuse incandescenti di tradimento e persino di crudeltà nei confronti dei cammelli. «Quando io parlo tu devi tacere!», ha sbraitato il ministro per gli Affari esteri del Qatar, Sultan bin Saad al Muraikhi. «No, quello che dovrebbe tacere sei tu!», gli ha gridato contro il suo omologo saudita. Tale rancore, estremamente personalizzato, presenta i toni inconfondibili di una faida familiare. Qatarini, sauditi ed emiratini discendono dalle stesse tribù di nomadi, condividono la stessa religione e mangiano le stesse pietanze. La loro disputa ricorda una lite tra cugini. Cugini che dispongono di miliardi di dollari e tanti aerei da caccia americani.
La scorsa settimana la crisi ha preso una svolta preoccupante, quando Abu Dhabi ha accusato gli aerei da guerra del Qatar di aver minacciato due voli di linea degli Emirati mentre attraversavano il Golfo. Non è vero, ha replicato il Qatar, aggiungendo che le squadriglie militari emiratine avevano già violato due volte il suo spazio aereo.
Che gli altri Paesi del Golfo si interessino al Qatar quel tanto che basta per disprezzarlo è uno sviluppo relativamente recente di questa vicenda. Per la maggior parte del XX secolo il Qatar occupava una zona remota e brulla del Golfo Persico che in passato era stata nascondiglio di pirati. Il suo popolo, disperatamente povero, si dedicava alla pesca di perle in estate e all’allevamento di cammelli in inverno. Per decenni i qatarini non sono riusciti a tenere il passo con i loro vicini sauditi, che attraversavano invece un esaltante boom economico trainato dal commercio del petrolio. Inoltre, la famiglia regnante al Thani era lacerata da feroci liti intestine e subiva periodicamente dei tentativi di colpi di Stato. Poi, nel 1971, il Qatar ha scoperto il gas.
La scoperta del maggior giacimento al mondo ha suscitato inizialmente un’amara delusione. «Speravamo di trovare il petrolio», ha dichiarato Abdullah bin Hamad al Attiyah, ministro dell’Energia. Negli anni Novanta, però, le nuove tecnologie hanno consentito di liquefare il gas affinché potesse essere trasportato a bordo di navi metaniere e destinato all’esportazione.
L’emiro Hamad bin Khalifa al Thani, padre di Tamim, fece allora un’enorme scommessa, e a dispetto di coloro che cercavano di scoraggiarlo, investì venti milioni di dollari in un colossale impianto di liquefazione a Ras Laffan, sulla costa settentrionale del Qatar, con l’aiuto del gigante dell’energia Exxon Mobil. Tra i dirigenti della Exxon Mobil che parteciparono alla costruzione dell’impianto vi era Rex W. Tillerson, attuale segretario di Stato Usa. Quella scommessa fu ripagata con risultati spettacolari: il commercio di gas prese piede, e nel 2010 il Qatar deteneva il 30 per cento del mercato globale.
Da allora i cittadini del Qatar, che oggi sono 300mila, si sono arricchiti con grande rapidità. Il loro reddito medio, pari a 125 mila dollari, è il più alto al mondo ed è più di due volte superiore a quello degli Stati Uniti o dell’Arabia Saudita. Lo Stato li tiene nella bambagia, mettendo a loro disposizione terreni gratuiti, impieghi di tutto comodo e università americane. All’ombra delle palme che costellano la Corniche di Doha sfrecciano Limousine sfavillanti e auto di gran lusso. Trovare un qatariota povero è impresa difficile.
Gli Al Thani hanno conosciuto una metamorfosi altrettanto radicale, che da signori di una penisola desolata, tutta dune di sabbia e distese di sale, li ha trasformati in attori spavaldi e sofisticati della scena globale; icone di stile che vengono celebrate sulle pagine di Vanity Fair e Vogue; titani dell’arte capaci di spendere centinaia di milioni di dollari per un Cézanne o un Gauguin; magnati dell’informazione fondatori di Al Jazeera, il pionieristico network televisivo che nel 2011 ha contribuito a sostenere la primavera araba. Lo scorso giugno l’Empire State Building si è illuminato dei colori nazionali del Qatar, che possiede una quota del celebre grattacielo. Un gesto che è indice dell’intensa ambizione dello Stato del Golfo.
Ma la tracotanza del Qatar suscita tra i suoi vicini dei sentimenti profondamente controversi. Nella loro corsa verso la conquista di un’influenza globale, gli Al Thani hanno perseguito delle politiche ambigue e talvolta contraddittorie: da un lato propugnano le virtù della pace, dell’istruzione e dei diritti delle donne; dall’altro hanno finanziato gli estremisti islamici in Siria e ospitano la maggiore base militare degli Stati Uniti in Medio Oriente.
Per l’Arabia Saudita e gli Emirati – ma anche per il Bahrain e l’Egitto, che si sono uniti al boicottaggio – il Qatar è una nazione di fastidiosi impiccioni, ebbri della propria ricchezza, e deve essere ridimensionato.
I protagonisti
Al centro di questa disputa ci sono tre esponenti reali determinati e caparbi. Il principe saudita Mohammed Bin Salman, 32 anni, guida una campagna per modernizzare ed infondere nuova energia alla società intorpidita del suo Paese. I suoi sforzi comprendono alcune proposte eccentriche, come quella di realizzare sul Mar Rosso una città interamente gestita da robot, la cui creazione richiederebbe 500 miliardi di dollari. Mohammed ha trovato un fido alleato nel cinquantaseienne sceicco Mohammed bin Zayed al Nahyan, volitivo principe ereditario di Abu Dhabi e di fatto governante degli Emirati, che ha messo insieme un esercito formidabile e condivide con il suo omologo saudita una profonda ostilità nei confronti dell’Iran.
Entrambi i principi sono alleati contro Tamim Al Thani, l’emiro del Qatar. Questi, un uomo imponente e dal portamento diplomatico, è per molti versi un classico potente del Golfo. Come suo padre ha studiato alla Royal Military Academy di Sandhurst, in Inghilterra. Ha tre mogli, dieci figli, e vive tra diversi, lussuosi palazzi di Doha: una città futuristica tutta torri di vetro e superstrade.
La sua ascesa al potere, avvenuta nel 2013 quando aveva solo trentatré anni, ha rappresentato una rottura rispetto alla gerontocrazia dell’Arabia Saudita, i cui governanti si asserragliavano sul trono sino alla morte. E i suoi modi disinvolti nascondono una vena di ostinazione che gli Stati vicini ritengono sia indice di un pericoloso piantagrane.
La faida tra i tre leader ha assunto toni barocchi – comprende, ad oggi, una contorta vicenda di spionaggio informatico, trovate propagandistiche, intrighi di palazzo e rischiose battute di caccia nel deserto – ed è degna di un dramma di potere che avrebbe potuto essere ambientato nel Golfo in tempi remoti. E poiché i suoi protagonisti sono uomini ricchi che indossano lunghi abiti bianchi chiamati è stata soprannominata “Game of Thobes”. La disputa, tuttavia, presenta per le sfavillanti città-Stato del Golfo un’opportunità per compiere una riflessione profonda.
Avendo per lo più schivato le rivolte della Primavera araba del 2011, i tre si avviano a grande velocità verso un nuovo ordine economico e politico i cui confini appaiono incerti. Al centro del tumulto c’è il Qatar, il contendente lillipuziano che ha combattuto per anni in una categoria superiore a quella a cui le sue forze lo avrebbero relegato, e che adesso si trova coinvolto nella sua sfida più importante.
Apertura, ma con moderazione
Nel centro di Doha, dietro un imponente palazzo dove l’emiro riunisce la sua corte due volte a settimana, sorge un nuovo museo che testimonia con stupefacente onestà una brutta vicenda del passato. Attraverso una serie di mostre ben curate, il museo Bin Jelmood House scava negli ignobili trascorsi della schiavitù nel Qatar, che il Paese ha abolito solo nel 1952. Un filmato evocativo ricrea le sofferenze patite dagli schiavi africani portati qui da Zanzibar per pescare le perle – che sino alla metà del XX secolo rappresentavano il pilastro dell’economia locale. Un listino dei prezzi mette in evidenza le crudeli cifre di quel commercio: nel 1926 un autista costava 1200 rupie, pari a circa 550 dollari, mentre per comprare un cuoco nel 1909 ne occorrevano 1500.
Con la sua determinazione a trattare apertamente le vergogne antiche, il museo riflette la stessa immagine che la dinastia Thani auspicano per il loro Paese, che vorrebbero aperto ed illuminato, meno chiuso della super conservatrice Arabia Saudita e più misurato della spregiudicata Dubai, negli Emirati Arabi Uniti.
A partire da giugno le donne saudite potranno finalmente guidare, mentre quelle del Qatar già lo fanno da decenni. Nel Qatar ci sono cinema, bar e persino donne fantino; i cristiani possono praticare apertamente la propria religione e, anche se i qatarini seguono la stessa corrente wahabita dell’Islam sposata dall’Arabia Saudita, qui di pubbliche decapitazioni (così come di altri spettacoli che offendono la coscienza moderna) non c’è ombra. Tamim loda i valori democratici del suo Paese. Secondo una sua recente previsione, tra cinquant’anni ad Al Jazeera verrà riconosciuto il merito di aver «completamente trasformato il concetto di libertà di espressione all’interno della regione». E, per molti aspetti, lo ha già fatto.
Ma le aperture si spingono solo sino a un certo punto. Nel 2012 un poeta qatariota è stato condannato all’ergastolo per aver insultato la famiglia reale: Tamim lo ha graziato soltanto nel 2016. E i canali in lingua araba di Al Jazeera, che offrono una copertura critica e a tratti feroce sul comportamento degli altri capi di Stato mediorientali, trattano invece reali del Qatar con i guanti bianchi. A partire dal 2016 le autorità hanno bloccato Doha News, una testata che propone un giornalismo critico senza riguardo per le autorità locali. E nel 2005 il governo ha privato della nazionalità qatarina cinquemila uomini appartenenti alle tribù locali, accusandoli di tradimento.
I lavoratori stranieri, che pure rappresentano il 90 percento dei tre milioni di residenti del Qatar, godono di pochi diritti, e i cantieri per la Coppa del Mondo del 2022 sono stati offuscati da numerosi rapporti con cui le organizzazioni umanitarie hanno denunciato abusi ai danni dei lavoratori immigrati. Persino il museo sulla schiavitù non è esattamente ciò che sembra: per evitare di offendere i qatarioti è stato inaugurato nel 2015 senza il fasto che solitamente accompagna iniziative simili. Di conseguenza, pochi qatarioti sembrano aver sentito parlare del museo, che è spesso vuoto.
Spacconate reali
Per più di un secolo i governanti del Qatar hanno vissuto nell’insicurezza, instillata il più delle volte dai loro stessi parenti.
Nel 1972 il nonno di Tamim detronizzò il cugino emiro – salvo poi essere allontanato a sua volta dal trono nel 1995 dal figlio Hamad. Venuto a sapere dell’accaduto mentre si trovava in vacanza in Svizzera, l’emiro spodestato denunciò il figlio come «uomo ignorante» e si ritirò in esilio. Quando i miliardi derivanti dal commercio del gas hanno iniziato a circolare, a partire più o meno dal 2000, le tensioni familiari si sono allentate, spianando così la strada a una nuova classe di reali ambiziosa e riformatrice.
La madre di Tamim, Sheikha Mozah bint Nasser Al Missned, 58 anni, è uno dei personaggi femminili più famosi del mondo arabo. Nota per le sue mise raffinate, l’aspetto perennemente giovane e l’impegno a favore dell’istruzione e dei problemi sociali, Sheikha Mozah si comporta come una first lady occidentale: interviene alle conferenze delle Nazioni Unite e visita i campi rifugiati indossando abiti da safari, con un foulard che le trattiene morbidamente i capelli. Ha costruito la sua base di potere attraverso una fondazione multimiliardaria che ha messo in piedi un’orchestra filarmonica reclutando musicisti provenienti da trenta Paesi, costruendo un ospedale di ricerca da otto miliardi di dollari e portando nel Qatar le succursali di alcune università americane tra cui Georgetown, Northwestern, Carnegie Mellon e Texas A&M.
La sorella più giovane di Tamim, Mayassa, è invece la zarina della cultura del Qatar e riveste un ruolo di primissimo piano nel mondo dell’arte. A soli trent’anni poteva già disporre di un budget annuale di un miliardo di dollari: per avere un termine di paragone, ogni anno il Metropolitan Museum di New York spende per le nuove acquisizioni solo 30 trenta milioni di dollari. Nel 2008 Mayassa ha convinto con le lusinghe l’architetto I. M. Pei ad abbandonare il suo pensionamento per costruire l’acclamato Museo di arte islamica di Doha, e successivamente si è aggiudicata importanti opere di Gauguin, Francis Bacon e Damien Hirst. Nel 2011 ha acquistato i “Giocatori di carte” di Cézanne, che ritrae una scena poco islamica in cui si beve e si gioca. Pare che l’opera sia costata 250 milioni di dollari: la cifra più alta mai spesa sino ad allora per un quadro.
In Europa i reali qatarini si sono fatti la fama di persone pronte a spendere, e tanto. Preferibilmente per accaparrarsi beni immobiliari vistosi e un prestigio aristocratico. Dopo il crollo finanziario del 2008 hanno acquistato isole greche, castelli francesi e moltissime proprietà tra le più rappresentative di Londra, compreso il grande magazzino Harrods, una porzione dell’aeroporto di Heathrow e lo Shard, l’edificio più alto di tutta l’Europa occidentale. Tanto che i giornali inglesi hanno più volte pubblicato titoli preoccupati nei quali annunciavano che il Qatar a Londra «ha più possedimenti della regina».
E stando alle autorità britanniche le cose starebbero proprio così. Tuttavia Elisabetta II non sembra preoccuparsene: la regina ha più volte cenato nel palazzo di Park Lane appartenente al trentenne Hamad bin Abdullah al Thani ( il cui valore si aggira sui 400 milioni di dollari), affascinante cugino dell’emiro i cui inservienti, si mormora, indossano uniformi ispirate allo stile descritto nella serie televisiva.
Nel Medio Oriente i governanti del Qatar hanno invece utilizzato la loro ricchezza per affermare la propria indipendenza dai Paesi vicini. Per decenni l’Arabia Saudita, che è 186 volte più grande del Qatar, ha trattato questo piccolo regno praticamente alla stregua di uno Stato vassallo. Negli anni Quaranta i governanti sauditi hanno intascato parte dei modesti profitti che il Qatar traeva dal petrolio, e in seguito ne hanno eroso i confini e dettato la politica estera e di difesa.
Il padre di Tamim, Hamad, ha accusato i sauditi di aver tentato di estrometterlo nel 1996 con un colpo di Stato. Un episodio increscioso che ha gettato le basi della silenziosa rivalità dei decenni successivi. Desiderosi di definire un proprio ruolo, i qatarini hanno iniziato con l’assumere la veste di pacificatori della regione, trasformando Doha in una sorta di Ginevra del Golfo Persico in cui i protagonisti dei conflitti di Sudan, Somalia e Libano venivano alloggiati in alberghi a cinque stelle per discutere dei loro contrasti. Nel 2003, anno della guerra in Iraq, hanno acconsentito ad ospitare una grande base aerea statunitense e si sono assicurati un ascendente popolare tramite Al Jazeera, che con il suo stile provocatorio è vista come fumo negli occhi praticamente da tutti i governi arabi.
I qatarini hanno ospitato i leader del gruppo militante palestinese Hamas, inducendo le autorità israeliane a definire Doha un «Club Med per terroristi». Ma è stato con la Primavera araba del 2011 che il Qatar si è realmente distinto: mentre tutto il Medio Oriente era scosso da movimenti spontanei che si ribellavano ai regimi, i sauditi e gli emiratini invece si preoccupavano della crescente influenza delle forze politiche islamiste, come i Fratelli musulmani in Egitto, che temevano avrebbero potuto diffondere il caos nei loro Paesi.
Il Qatar invece le appoggiò.
«Abbiamo preso le parti del popolo», ha affermato lo scorso ottobre Tamim durante il programma televisivo Usa 60 Minutes.
«Gli altri hanno preso le parti dei regimi. Credo che la nostra sia stata la scelta giusta». L’emiro poteva permettersi di fare lo spavaldo: il Qatar era immensamente ricco, a poche miglia dal suo palazzo sorgeva una grande base aerea americana e non aveva nessuna opposizione interna. «C’era la sensazione che potessero fare qualsiasi cosa avessero voluto, a patto di sborsare denaro a sufficienza», dice Kristian Coates Ulrichsen, autore di “Il Qatar e la primavera araba”. «La loro fiducia in se stessi era al culmine». Intanto però a Riad e ad Abu Dhabi la frustrazione cresceva.
Due principi
L’alleanza tra il principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed bin Salman e il suo omologo emiratino Mohammed bin Zayed è stata cementata come si conviene con una battuta di caccia col falco: un rito molto amato dai reali del Golfo che prevede un allestimento elaborato e una spesa cospicua (un falco da caccia può costare anche 250mila dollari). Nel febbraio del 2016 i due principi si sono incontrati nel deserto orientale dell’Arabia Saudita per un safari, a cui l’estate successiva hanno fatto seguito delle spedizioni di caccia in Francia e in Galles. Tutti questi viaggi hanno consolidato il rapporto tra l’iperattivo principe saudita, che ha 32 anni, e quello emiratino, più anziano di lui ma dalle simili vedute. Ma con la loro alleanza militare sono stati accusati di essersi spinti troppo oltre. Nello Yemen, dove i due hanno condotto una guerra aerea devastante ma inefficace contro la fazione degli Houthi, vicini all’Iran, le loro forze sono ritenute responsabili di crimini di guerra e della crisi alimentare che sta colpendo larga parte della popolazione, costretta alla fame.
Sino a poco tempo fa la rivalità reale appariva evidente soprattutto nel contesto globale e si giocava sul piano delle iniziative più costose ed appariscenti. Negli Emirati, Dubai vanta l’edificio più alto del mondo, mentre il Qatar si è assicurato la Coppa del Mondo 2022 e ha accolto le succursali di diverse università americane. Sul fronte dell’arte, lo scorso novembre un reale saudita ha acquistato per 450 milioni di dollari il “Salvator Mundi” di Leonardo da Vinci, eclissando così la somma con cui il Qatar si era assicurato il quadro di Cézanne. L’opera di da Vinci, che si dice sia stata comprata per conto del principe ereditario, verrà esposta ad Abu Dhabi, dove recentemente è stato inaugurato la nuova filiale del Louvre.
Si aizzano attraverso la stampa: lascia briglia sciolta ai dissidenti sauditi; mentre sui media sauditi, emiratini ed egiziani Sheikha Mozah è fatta oggetto di insulti raccapriccianti e spesso misogini: viene ritratta come una donna assetata di potere e una manipolatrice di uomini deboli.
Ma al suo cuore, la rivalità è di natura politica. Poco importa che il Qatar abbia perso la scommessa sulla Primavera araba: in tutta la regione le forze islamiste foraggiate da Doha sono state sconfitte o sono in ritirata. Nonostante ciò, i vicini del Qatar guardano al Paese con un sospetto quasi patologico. Tale diffidenza si è manifestata apertamente nel 2014, quando l’Arabia Saudita e gli Emirati hanno richiamato gli ambasciatori da Doha, innestando una crisi diplomatica che si sarebbe conclusa solo nove mesi più tardi. L’anno scorso, però, quelle tensioni sono tornate inaspettatamente ad acuirsi.
A colpi di fake news
La crisi che ha scatenato il più grande conflitto che ha scosso il Golfo da decenni a questa parte è iniziata con una serie di eventi casuali e apparentemente non collegati tra di loro. E che, in linea con lo stile che ha segnato l’intero 2017, comprendono il ricorso alle fake news e lo zampino del nuovo presidente americano Donald J. Trump.
A marzo è scoppiata una disputa al vetriolo attorno al destino di Alaa Alsiddiq, una dissidente emiratina che dal 2013 risiede a Doha. Dopo la pubblicazione di un suo articolo sui diritti delle donne del Golfo apparso sul sito web di Al Jazeera, gli Emirati, che già avevano annullato il suo passaporto, hanno rinnovato a Tamim la richiesta di rispedire la donna in patria. L’emiro si è rifiutato di assecondare i suoi vicini, dichiarando ad un ambasciatore occidentale di temere che Alsiddiq potesse essere torturata o uccisa. La furia degli Emirati si è inasprita.
Un secondo episodio era invece incentrato sul pagamento di un ingente riscatto. Lo scorso aprile un jet privato qatarino che trasportava 300 milioni di dollari è atterrato in Iraq per riportare in libertà ventisei membri di una spedizione di caccia qatarini, nove dei quali membri della famiglia reale, che erano stati rapiti da una milizia filo-iraniana. Benché il nome del destinatario ultimo di quella somma sia ancora avvolto nel mistero, i detrattori di Tamim hanno scorto in quella vicenda la prova della sua scellerata disponibilità a fare concessioni agli estremisti. L’episodio inoltre ha fornito loro un argomento convincente da sottoporre al nuovo presidente americano.
Già prima dello scorso maggio, quando è atterrato a Riad per il primo dei suoi viaggi da presidente, Trump sembrava aver preso solidamente le parti dei sauditi. Le leadership saudita ed emiratina avevano coltivato per mesi uno stretto rapporto con Jared Kushner, consigliere nonché genero del presidente. E stando ad un funzionario del dipartimento di Stato Kushner, neofita della politica estera, aveva fatto proprie le opinioni dei principi riguardo alle dinamiche della regione, ivi compresa la loro ostilità nei confronti del Qatar.
A Riad Trump ha voluto ostentare il suo promettente rapporto con l’ottantunenne re Salman posando insieme a lui per una foto in cui entrambi poggiano le mani su un mappamondo luminoso. L’immagine, che secondo le intenzioni avrebbe dovuto simboleggiare un sentimento di solidarietà, ha scatenato invece un’ondata di ironia su Internet: i due sembrano i “cattivi” di un film pronti a impadronirsi del pianeta.
Trump ha incontrato anche Tamim, e secondo il leader qatarino il colloquio era andato bene. Due giorni più tardi, però, tornato a Doha, l’emiro è stato bruscamente svegliato da una notizia inquietante: qualcuno aveva hackerato il sito della Qatar News Agency, l’agenzia di stampa statale, pubblicando un articolo in cui l’emiro definiva l’Iran una “superpotenza”, elogiava Hamas e prevedeva che la presidenza di Trump non sarebbe durata a lungo.
Affermazioni che erano frutto di pura invenzione, ma sulle quali i vicini del Qatar si sono avventati come se fossero state vere. Nel giro di pochi minuti gli opinionisti delle stazioni televisive emiratine e saudite avevano preso a discettare nel dettaglio della perfidia del Qatar e a lanciare accuse incandescenti. Tamim ha convocato in fretta e furia i suoi ministri e ha fatto prontamente rimuovere l’articolo. Poi, pensando che il problema fosse risolto, si è dedicato a guardare un’importante gara di basket della Nba: i Golden State Warriors contro i San Antonio Spurs. Ma i suoi guai in realtà erano appena cominciati.
Nel corso delle settimane successive le testate giornalistiche emiratine e saudite hanno rincarato la dose a ritmi sempre più serrati, accusando il Qatar di mettere a repentaglio la stabilità del Golfo. E diversi think tank conservatori di Washington si sono uniti al coro.
Poi, il cinque giugno, senza alcun preavviso, sul Qatar si è abbattuto il boicottaggio dei quattro Paesi. Di cui Trump è stato felice di attribuirsi il merito. «Durante il mio recente viaggio in Medio Oriente ho affermato che l’ideologia radicale non può più essere finanziata», ha scritto l’indomani in un tweet. «I leader hanno indicato il Qatar – e guarda un po’!».
I funzionari dell’intelligence americana hanno stabilito che la pubblicazione delle fake news era stata orchestrata dagli Emirati, che già dal 2016 caldeggiavano in silenzio un boicottaggio del Qatar. A dichiararlo è stato un funzionario Usa intervistato dal New York Times, il quale, citando i contenuti di alcune riunioni dei vertici dell’intelligence, ha aggiunto che “prove inconfutabili conducono ad Abu Dhabi”, dove risiede il principe ereditario Mohammed bin Zayed. «Non vi sono dubbi». Il funzionario ha anche detto che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, venuto anticipatamente a conoscenza dell’escamotage, aveva dato la sua approvazione. Yousef al Otaiba, ambasciatore degli Emirati a Washington, ha detto che il suo Paese «nega categoricamente» qualsiasi coinvolgimento nella vicenda dell’hackeraggio, mentre di fronte a una richiesta di commenti il governo saudita non ha risposto.
Il boicottaggio
Un pomeriggio dello scorso agosto mi sono recato ad Aqua Park, un parco acquatico che sorge nel deserto, a venti minuti da Doha, per vedere gli effetti che il boicottaggio sta producendo sul Qatar. All’interno del parco, dove la temperatura a mezzogiorno sfiorava i cinquanta gradi, uomini e donne si aggiravano liberamente in costume da bagno, benché l’uso dei bikini fosse scoraggiato. Frotte di bambini urlanti si precipitavano giù per il Boomerango, la principale attrazione del parco, mentre più in alto, in cielo, gli aerei da guerra americani rombavano diretti verso le zone di guerra in Iraq e in Siria.
L’Aqua Park si trova a poche centinaia di metri da Al Udeid, la base aerea americana la cui pista, illuminata, risplende in lontananza. La base ospita più di diecimila militari americani e rappresenta da oltre un decennio il gioiello strategico del Qatar, nonché uno dei principali motivi per cui il Paese ha potuto permettersi di sfidare i suoi nemici. Gli Emirati adesso stavano cercando di convincere gli Stati Uniti a chiuderla.
Il parco è un’attività tipicamente qatarina, nel senso che nel suo organico non conta nessun qatarino: il direttore, Mohammed Firdous Raj, è malese; i bagnini sono kenioti e altri dipendenti sono libanesi od egiziani. Prima del boicottaggio i turisti sauditi, che per arrivare qui percorrevano in auto i venticinque minuti di tragitto che separano il parco dal confine, rappresentavano un quarto della clientela. Adesso l’autostrada del deserto appariva semi vuota, così come molti degli alberghi di Doha. «Ci piacerebbe che tornassero», ha affermato Raj, riferendosi ai sauditi. Ma poiché il proprietario del parco, un ex ministro del governo qatarino, gli aveva consentito di praticare degli sconti sui biglietti d’ingresso, il numero dei clienti era rimasto quasi inalterato. «È un peccato per i sauditi», ha detto con un’alzata di spalle. «In un modo o nell’altro però ce la faremo».
Il boicottaggio ha inflitto qualche danno al Qatar. Con la chiusura del suo unico confine terrestre, il divieto per le sue navi di passare dai porti emiratini e l’impossibilità dei suoi aerei di sorvolare lo spazio aereo dei Paesi vicini, i costi delle importazioni sono andati alle stelle. Lo scorso anno la Borsa ha perso un quinto del suo valore. I lavoratori stranieri, impossibilitati a recarsi a Dubai nel fine settimana per fare baldoria, si lamentano dell’atmosfera claustrofobica della tradizionalista Doha. Il bando sui viaggi ha danneggiato anche molte famiglie tribali, i cui membri da secoli si spostavano attraverso le frontiere.
Eppure la vita quotidiana a Doha è rimasta per lo più immutata. Negli alberghi a cinque stelle i vini costosi scorrono a fiumi; i lavori per la nuova metropolitana procedono, e uno spettacolare Museo nazionale la cui sagoma ricorda quella di una rosa del deserto sarà presto l’ultima, ennesima meraviglia architettonica della città. Nei fine settimana i giovani qatarini vanno a “colpire le dune” sfrecciando a tutta velocità nel deserto a bordo di veicoli 4x4 dal motore truccato, talvolta capovolgendosi. La banca centrale del Qatar dichiara di disporre di 340 miliardi di dollari con cui poter far fronte alla crisi.
Inoltre il boicottaggio per certi aspetti si è ritorto contro coloro che lo hanno voluto. Le limitazioni al commercio hanno infatti costretto il Qatar a stringere ulteriormente i rapporti economici con l’Iran, e Tamim è diventato oggetto di un fervido culto della personalità. L’immagine dell’emiro adorna i cartelloni che ricoprono i grattacieli, mentre viene esaltato in canzoni mielose che inneggiano alla sua guida d’acciaio. «È la personificazione del re filosofo», ha affermato Dana al Fardan, una delle interpreti di simili brani.
Facendo di necessità virtù, i suoi ministri stanno mettendo a punto nuovi rapporti commerciali e nuove rotte di trasporto. Per supplire alla mancanza di latte che un tempo giungeva dall’Arabia Saudita hanno creato dal nulla, nel deserto, una nuova industria casearia. Lo scorso luglio, in una scena surreale, alcune mucche tedesche sono scese dalla rampa di un Airbus della Qatar Airways appena atterrato all’aeroporto di Doha: erano i primi dei circa quattromila esemplari fatti arrivare dall’Europa, dall’Australia e dalla California.
Un martellante nazionalismo ha preso il posto dei legami “fraterni” che un tempo cementavano i rapporti tra i Paesi arabi. I pellegrini qatarini raccontano di non essere riusciti a recarsi alla Mecca, in Arabia Saudita, mentre in Bahrein, in Arabia Saudita e negli Emirati le manifestazioni di solidarietà nei confronti del Qatar sono considerate reato.
La speranza che l’Amministrazione Trump potesse porre fine alla crisi è naufragata nella sua politica caotica. I tentativi di mediazione da parte di Tillerson, che vanta decenni di esperienza in Qatar come dirigente del settore energetico, sono stati ripetutamente minati da Trump, che nel corso di una raccolta fondi tenuta a Washington si è preso gioco del modo in cui la parola “Qatar” viene pronunciata.
È vero che il Qatar ha un atteggiamento morbido nei confronti del terrorismo? Stando ai funzionari americani, alcune delle accuse che vengono rivolte al piccolo regno sarebbero false. Nel 2015, su insistenza dell’Amministrazione Obama, Tamim ha tagliato i finanziamenti destinati alle milizie più estremiste della Siria e ai gruppi islamisti libici. I suoi rapporti cordiali con l’Iran nascono dalla necessità: i due Paesi condividono il gigantesco giacimento di gas naturale a cui il Qatar deve la propria ricchezza.
Un ambito in cui il Qatar avrebbe qualche spiegazione da dare, dicono i funzionari, è quello del trattamento riservato ai cittadini qatarini che vengono accusati di finanziare gruppi terroristici come Al Qaeda. I processi ai presunti finanziatori, ammesso che vengano celebrati, si svolgono in segreto, il che rende difficile sapere quale pena ( ammesso che ve ne siano) viene loro inflitta. Abd al Rahman al Nuaymi, ex professore universitario e uomo d’affari ritenuto dalle Nazioni Unite e dagli Stati Uniti un terrorista, è stato processato in segreto nel 2015 e assolto. In seguito l’uomo ha vissuto liberamente a Doha, benché le sue transazioni bancarie e i suoi spostamenti siano stati sottoposti a qualche limitazione. A raccontarlo è un ex funzionario del Tesoro Usa che ha ricevuto informazioni di prima mano al riguardo. Un funzionario qatarino ha aggiunto che, dopo che l’accusa ha ricevuto nuove prove sul caso, Nuaymi è stato arrestato e ora sarebbe in attesa di un secondo processo.
Accuse analoghe si potrebbero rivolgere ai nemici del Qatar. I sauditi sono da tempo accusati di esportare in tutto il mondo l’Islam radicale tramite le loro scuole islamiche dalla linea intransigente. Il principale socio commerciale dell’Iran nella regione non è il Qatar bensì Dubai. E negli Emirati le violazioni dei diritti umani e le limitazioni alla libertà di stampa sono di gran lunga più gravi che in Qatar. Secondo i sostenitori del Qatar questa ipocrisia rivela quello che loro ritengono essere il vero obiettivo del boicottaggio: il desiderio di ridimensionare o eliminare il giovane emiro del Qatar, il principe che si rifiuta di fare come gli altri per andare d’accordo con loro.
Una guerra fredda nel deserto
Secondo Tamim lo scopo ultimo dei suoi vicini sarebbe quello di deporlo. In un’intervista al New York Times l’emiro ha ricordato un precedente: il colpo di stato sponsorizzato nel 1996 dall’Arabia Saudita ai danni di suo padre. «L’abbiamo sempre considerato un monito», ha detto.
I suoi timori potrebbero essere giustificati: secondo due funzionari americani, nei primi giorni del boicottaggio i leader saudita ed emiratino avevano preso in considerazione la possibilità di un intervento militare contro il Qatar. I dettagli di tale disegno non sono chiari, ma quella conversazione fu ritenuta da Tillerson sufficientemente credibile da indurlo a mettere personalmente in guarda i due contro un’azione precipitosa. Un consiglio che lo stesso Trump avrebbe in seguito reiterato nel corso di una telefonata con il leader saudita.
L’ambasciatore degli Emirati a Washington, Yousef al-Otaiba, ha negato nel corso di un’intervista che un simile piano sia mai esistito. «Non lo abbiamo mai preso in considerazione», ha detto. Eppure la sola ipotesi di un intervento militare dimostra come le norme che un tempo regolavano i rapporti tra i Paesi del Golfo siano state infrante. Durante la crisi il Consiglio di Cooperazione del Golfo, l’organizzazione regionale che riunisce sei nazioni e che dovrebbe risolvere dispute come questa, è rimasto invisibile. Nel contempo i sauditi hanno proposto come potenziali rivali politici di Tamim una serie uomini d’affari qatarini in esilio.
Quanto alla strategia dell’hackeraggio, i qatarini sembrano aver pareggiato i conti: per mesi i media americani hanno ricevuto delle email trafugate che miravano a mettere in imbarazzo Otaiba, l’ambasciatore emiratino. Le email sembrano provenire dalla Russia, ma stando ai media sarebbero invece da collegare al Qatar. Il Qatar ha negato qualsiasi coinvolgimento nella faccenda. «Per linea politica e per principio, il Qatar non compie crimini informatici né diffonde fake news», ha dichiarato il governo in una dichiarazione rilasciata al Times domenica scorsa.
Nulla lascia supporre che la disputa si potrà risolvere di qui a breve. E benché i sauditi e gli emiratini potrebbero aver sopravvalutato l’efficacia del boicottaggio nell’esercitare pressioni sul Qatar, è probabile che ritengano anche di aver poco da perdere nel suo perdurare. «Credo che siano contenti di dissanguare il Qatar», ha detto Roberts, l’analista del King’s College. «Provano una rabbia sdegnata verso quello che considerano un piccolo Stato ricco, viziato e perfido che finalmente soffre le conseguenze delle proprie azioni».
La scorsa settimana la disputa si è spostata nei cieli, e le accuse secondo cui gli aerei da guerra del Qatar avrebbero infastidito alcuni voli civili emiratini hanno messo in evidenza la facilità con cui la crisi potrebbe inasprirsi.
Le due fazioni stanno potenziando i loro eserciti. Dallo scorso giugno Tamim ha ordinato 36 caccia F-15 dagli Stati Uniti, 24 caccia Typhoon dalla Gran Bretagna e altrettanti caccia Rafale dalla Francia, manifestando così l’intenzione di aumentare di sette volte la dotazione della sua aeronautica militare, che attualmente conta solo 12 velivoli.
A dicembre i suoi nemici hanno annunciato la formazione di un nuovo esercito saudita-emiratino e una partnership economica che mette ulteriormente in secondo piano il Consiglio per la Cooperazione del Golfo, di cui anche il Qatar fa parte. Pochi giorni più tardi Tamim ha allestito per il presidente francese Emmanuel Macron un sontuoso banchetto da Idam, un ristorante francese situato all’ultimo piano del Museo dell’arte islamica, da cui si gode una sfavillante veduta dello skyline di Doha. Nel corso del raffinato pasto, preparato dal celebre chef Alain Ducasse, i due leader hanno brindato agli accordi firmati quella mattina: l’emiro aveva ordinato altri dodici caccia francesi.
New York Times News Service (Traduzione di Marzia Porta)