la Repubblica, 26 gennaio 2018
Gianluigi Buffon: «I miei 40 anni di ostinazione. Se la Juve vuole mi piacerebbe giocare ancora»
TORINO Domando a Gigi Buffon che cosa c’è dentro l’armadietto a doppia anta, l’unico della schiera, con sopra stampigliati il suo nome e naturalmente il numero 1, immagino non solo perché lui di mestiere fa il portiere, qui a Vinovo, dove la Juventus si allena, suda, mangia, decide la formazione, in sostanza vive. «Scarpe vecchie, guanti consumati, lettere, vestiti, libri, fotografie, un trolley. Il mio ordinato disordine». Bisognerà traslocare. Forse.
Buffon è un calciatore che legge un po’ di tutto, con una certa frequenza, e per spiegare questa sua abitudine che non è dell’ultima ora una volta ha usato una frase che sarebbe potuta uscire dalla bocca di Adriano Celentano: «Coltivo la mia ignoranza». Anche in questa occasione, per affrontare il tema delicato del suo addio più o meno imminente trova un’immagine quasi letteraria. Vorrebbe uscire di scena con uno schianto e non con un lamento: «Preferisco ritrovarmi senza benzina in alto mare dopo una traversata alla velocità di cento nodi, piuttosto che rientrare lentamente e mestamente in porto».
La fabbrica juventina degli scudetti è un luogo di periferia, circondata da un lungo muro oltre il quale, se si ha occhio e pazienza, si può venire sorpresi dalla meraviglia del passaggio improvviso di un cavallo al trotto che si allena sulla pista dell’ippodromo di fronte. Il muso del cavallo, il sulky, la giubba a scacchi del guidatore. Una frazione di bellezza e di colore, un’immagine da film che dura appena due secondi tra i prati e l’asfalto di un posto perfetto per correre e desolato a sufficienza per riflettere sul momento di smettere di correre. Buffon compie quarant’anni domenica, un’età di confine per qualsiasi atleta. Non puoi combattere e non importa se conservi il fisico e la risata di un ragazzo e l’orgoglio di un capo.
Mettiamo in fila i segnali. Il pianto irrefrenabile sull’erba di San Siro dopo l’eliminazione con la Svezia, quasi due mesi fuori squadra per la contrattura a un polpaccio trascurata, il fantasma di una vecchia nemica, la depressione, che si infila nella testa come il gelo sotto le porte.
Si è forse aperta qualche crepa?
«Lei non ci crederà, eppure in questo momento sono una persona felice. Il pianto di Milano andava oltre l’amarezza di un fallimento che pensavamo impossibile, è stata la conseguenza di una grande responsabilità sportiva nei confronti dell’intero paese e la reazione di un uomo che a quarant’anni avverte le emozioni in maniera più profonda rispetto a quando ne aveva venti».
Il suo lungo infortunio non ha nascosto l’angoscia del vuoto, il sopraggiungere di una fragilità improvvisa?
«Nella vita nulla accade per caso. La sosta mi ha fatto bene, mi ha inviato un messaggio chiaro, mi ha costretto a pensare. Oggi sento dentro di me un desiderio di competere anomalo per la mia età».
Addio al sesto Mondiale che sarebbe stata una meta mai guadagnata da nessuno, addio al record di presenze in Serie A.
Rispetto a settembre il copione è stato stravolto. Non mi dica che ha cambiato idea sui tempi del ritiro. Vuole giocare un’altra stagione?
«Incontrerò presto il presidente Andrea Agnelli e ne parleremo.
Voglio il bene della squadra, capire che tipo di vestito posso indossare, se la Juventus pensa che io possa essere ancora importante. Mi piacerebbe, ma la soluzione migliore va trovata con la società.
Dobbiamo costruire assieme, se possibile, un percorso logico e condiviso. Certo è che non voglio diventare un problema né per la Juve né per i miei compagni».
Sarebbe disposto ad accettare anche un’alternanza tra i pali con Szcsesny?
«Ho sempre dato spazio agli altri.
Sono contento per Tek. È un grande portiere e se dovessimo vincere il campionato gran parte del merito sarà suo. Come suo sarà il futuro».
Se Agnelli le opponesse un rifiuto, andrebbe da un’altra parte?
«La Juve o nulla».
Sia sincero. Ricorderà senza dubbio le critiche a Zoff quarantenne. Quanti solchi scava il tempo sui muscoli e i riflessi di un portiere?
«È una risposta che mi crea imbarazzo e disagio. Non voglio passare per un vecchiaccio che mente persino a sé stesso per aggrapparsi con le unghie e i denti al suo monumento e alla pagnotta.
In questa stagione ho fatto un’imperfezione contro l’Atalanta e un errore su punizione con la Spagna. Ho giocato partite da fenomeno, altre normali, altre ancora magari modeste, eppure la Fifa mi ha premiato come il miglior portiere del 2017. Mi sento come mi sentivo sei, sette anni fa. È la risposta vera. Se non la convinco chieda un giudizio ai miei allenatori, loro mi valutano in campo ogni giorno».
Mi fido, ma portiamoci avanti. Che cosa farà nella prossima vita?
«Ancora non ci ho pensato.
Qualche giorno fa ho chiesto consiglio a Lippi. Ci siamo sentiti al telefono. Prenditi un anno sabbatico, mi ha detto Marcello, guarda il mondo del calcio dall’esterno e con un po’ di distacco, cerca di capire che cosa ti interessa veramente. Glielo ripeto: non cerco un porto sicuro, meglio avere addosso un po’ d’ansia. Ho sempre convissuto con la paura, invecchiando ho imparato a tenerla a bada, sono diventato più umile.
Dopo, mi rimetterò a lavorare.
Tutto qui».
La ritroveremo in tuta o in giacca e cravatta a fare l’allenatore?
«Se succederà non sarò l’allenatore di un club. Ho una compagna, tre figli che adoro e alle spalle ventotto anni di vita quotidiana organizzata dagli altri minuto dopo minuto.
Vorrei prendermi il lusso della noia. Ci sono momenti nel quali desidero essere solo, ma solo solo. Mezze giornate mie in cui posso fare di tutto, durante le quali nulla mi è proibito».
Ci sarebbe la panchina di commissario tecnico della Nazionale. Ci ha fatto un pensiero?
«Ecco, un incarico da ct non mi dispiacerebbe. È un impegno stimolante, con una responsabilità istituzionale e educativa.
Rappresenti un paese intero.
Unisci, non dividi».
La sua è una candidatura per guidare l’Italia?
«No. Ho detto che mi piacerebbe fare il ct di nazionali, non degli azzurri».
Mi ha accennato ai suoi figli.
Louis ha dieci anni, David otto.
La loro madre è Alena Seredova. Leopoldo, avuto da Ilaria D’Amico, di anni ne ha due. Le hanno mai domandato: papà, quando smetti e torni a casa da noi?
«L’ha fatto Louis, qualche mese fa.
Mi ha detto: sarei contento per noi, un po’ meno per te. Vede, lui e David stanno con me due giorni la settimana, ma spesso a causa degli impegni ravvicinati di campionato e Champions, i miei giorni liberi si riducono a uno. Sono un padre intermittente».
Che cosa fa quando sta con i suoi bambini?
«Viaggi nel tempo, artigianato della vita, breve digiuno dagli smartphone. Li faccio giocare a pallone su strade in salita o nel cemento dei cortili tra le macchine parcheggiate, la sera sfide famigliari a fiori, frutti, animali e nomi di città. Li porto in quello che era il mio mondo di bambino».
Quanto deve, nel suo processo di maturazione, a Ilaria D’Amico?
«Ilaria vale molto. L’empatia tra noi è stata immediata, mi ha aiutato ad affrontare le sofferenze di alcune scelte. È una donna che ti convince sottovoce, il confronto con lei, a volte anche il contraddittorio, mi ha fatto crescere e ha ammorbidito i miei limiti. Mi piace pensare che in qualche tratto impervio del nostro cammino il beneficio sia stato reciproco».
La politica. Sgarbi l’ha invitata a non escluderla dal suo futuro.
È un’opzione che un giorno potrebbe affascinarla?
«Vittorio mi è simpatico. La nostra amicizia è cominciata dopo lo scambio di alcuni messaggi. Al netto di intemperanze e provocazioni ho imparato a stimarlo per la sua genialità anche se dovrebbe allenarsi alla moderazione. Dopo il caso di George Weah non è stato l’unico a chiedermelo. Le rispondo così: chi vivrà vedrà, non allontano a priori l’amaro calice, nonostante qualcuno abbia detto, mi pare, che in politica anche un angelo diventa una sgualdrina».
Che cosa le mancherà, soprattutto, della vita di calciatore?
«Poca roba. L’odore dello spogliatoio. Il dialogo cameratesco con i compagni di squadra che ti fa rimanere giovane più di quanto dica la biologia».
Non i gesti cari del portiere: infilarsi i guanti, misurare a passi la porta, un colpo di reni, la mano protesa in tuffo verso un pallone che cerca l’angolo più distante, la sfida di sguardi con l’avversario sul dischetto degli undici metri?
«Non credo. Sono gesti che ho ripetuto per troppi anni. Tutte le passioni impallidiscono e si attenuano con il trascorrere del tempo. Non avrò rimpianti».
Riavvolga questo film lungo quasi trent’anni. Quali sono i fotogrammi che più hanno conservato la nitidezza dei loro contorni?
«Io ragazzino, il campo di terra del Bonascola a Carrara, le facce dei primi allenatori. Auro Menconi, Ermes Fulgoni e Ermes Polli, che per tutti noi era il postino. Sono i ricordi remoti che più mi emozionano. E poi mio padre, che mi ha insegnato la semplicità e a non accontentarmi mai. Magari uscivo dal campo dopo aver parato diciotto rigori e lui mi diceva: hai fatto una buona partita».
La sua autobiografia, infine, in un rigo appena.
«Sono stato ostinato senza essere ottuso».