la Repubblica, 26 gennaio 2018
1968 La rivolta di Paul Auster
Il 1968 è stato probabilmente l’anno più importante, folle e confuso della mia vita.
Sono nato nel 1947, ciò significa che nel ’ 68 ho compiuto ventuno anni. A quell’epoca ero perciò giovane, ma non così giovane. Durante gli anni precedenti, da adolescente, ho sempre seguito con attenzione quello che accadeva negli Stati Uniti e nel mondo. M’interessavo al movimento per i diritti civili negli Stati Uniti e seguivo gli sviluppi dell’escalation in Vietnam. Ero sostenitore dei Sane (National Committee for a Sane Nuclear Policy), un gruppo pacifista negli Stati Uniti, che si opponeva all’uso delle armi nucleari. Seguivo con attenzione gli avvenimenti, ma non ero un attivista. Stavo maturando la decisione di fare lo scrittore e avevo già iniziato a scrivere poesie e racconti. Nel 1965, a diciotto anni, sono entrato alla Columbia University. Ero ormai risoluto nel voler diventare uno scrittore.
Il 1967 è stato un anno molto turbolento, quello della guerra dei Sei giorni in Israele e dei giganteschi disordini a Newark, nel New Jersey, la città dove vivevano mia madre e il mio patrigno, avvenimenti che ho visto con i miei occhi.
Gli scontri razziali scoppiarono nel luglio, più o meno in contemporanea con la guerra dei Sei giorni in Israele. I neri insorsero contro gli amministratori di Newark, ma loro protestavano esclusivamente contro il razzismo. Il mio patrigno, il secondo marito di mia madre, era un avvocato del lavoro. Era una brava persona, che ho sempre ammirato moltissimo. Era consulente legale del comune di Newark. Non era un grande incarico, ma era un’attività importante per la comunità, e lui godeva di grande rispetto da parte di tutti gli amministratori e i cittadini. A quel tempo io abitavo a New York, a Manhattan, e una sera mia madre e il mio patrigno vennero per portarmi a mangiare fuori. Finita la cena, siamo saliti nella macchina del mio patrigno, che doveva riaccompagnarmi a casa. Il mio appartamento era uptown. Lui aveva un’auto di proprietà del comune di Newark.
In macchina c’era una ricetrasmittente che stava trasmettendo un frastuono di voci. Dicevano che Newark era in preda ai disordini, che era scoppiata una rivolta. Il mio patrigno disse che non poteva riaccompagnarmi perché doveva rientrare immediatamente a Newark. Ci recammo subito al municipio e incontrammo il sindaco, un italoamericano di nome Hugh Addonizio. Era seduto alla sua scrivania, con la testa fra le mani, e stava piangendo. Disse al mio patrigno: «Norman, Norman, che cosa devo fare?».
Quella notte Addonizio commise un gravissimo errore: lui e il governatore del New Jersey, Richard J. Hughes, decisero di chiamare la guardia nazionale e la polizia di Stato del New Jersey. Io mi trovavo in quella stanza quando entrò il capo della polizia.
Sembrava un marine, con i capelli tagliati cortissimi. Disse al sindaco: «Li prenderemo tutti dal primo all’ultimo quei neri figli di puttana, gli daremo la caccia».
Sempre quella notte il mio patrigno, in quanto avvocato del comune, andò a controllare la situazione nelle celle del seminterrato e io lo accompagnai.
Le celle erano piene di neri. Erano stati tutti picchiati, sanguinavano dalla testa. Dunque la reazione della guardia nazionale e della polizia di Stato si era già scatenata, ed è una cosa che non dimenticherò mai. Mi sembrò di trovarmi nel bel mezzo di una guerra. Ero lì e vidi tutto con i miei occhi. I tumulti andarono avanti per qualche altro giorno e poi, finalmente, terminarono. (…) Nella primavera del 1968, alla Columbia University – io frequentavo il terzo anno – si sviluppò un grande movimento di sinistra, guidato da una delle organizzazioni studentesche, gli Students for a Democratic Society ( Sds). L’Sds contestava l’establishment dell’università su svariate questioni. Una delle più importanti era la partecipazione delle università alla ricerca per il ministero della Difesa. La protesta era in realtà contro la guerra in Vietnam e il razzismo, ma la Columbia era un’istituzione privata, non pubblica come le università europee, per cui le nostre proteste erano inevitabilmente, come dire, un po’ periferiche. La contestazione dei rapporti fra la Columbia University e il ministero della Difesa rappresentava una protesta simbolica, che innescò comunque un’enorme esplosione nell’aprile del 1968, quando gli studenti occuparono cinque edifici della Columbia e l’università chiuse. Io stesso, che non ero un militante dell’Sds ed ero impegnato soprattutto a leggere filosofia, letteratura e a scrivere le mie poesie e le mie prose, rimasi talmente coinvolto da quanto succedeva da diventare uno degli occupanti.
Il giorno in cui scoppiò l’occupazione ci fu una coalizione fra l’Sds e l’organizzazione degli studenti neri, la Sas, Student African- American Society e i due gruppi occuparono insieme una facoltà dell’ateneo. Gli studenti bianchi e quelli neri dissentivano sulle tattiche e a un certo punto i neri dissero ai bianchi che erano disposti a morire pur di non lasciare l’edificio. Secondo me stavano esagerando, ma in ogni caso dissero che sarebbero stati pronti a portare dentro delle armi per combattere. Gli studenti bianchi non volevano arrivare a tanto.
La divisione rappresentò un momento molto triste. Tutto successe alle 5 del mattino del 24 aprile: gli studenti bianchi lasciarono la facoltà prendendo possesso di un altro edificio dell’ateneo. E poi continuarono, arrivando a occupare cinque edifici. Quindi, in un certo senso, se gli studenti bianchi e neri fossero rimasti uniti, la protesta forse non avrebbe raggiunto certe proporzioni. La divisione costrinse gli studenti bianchi a intraprendere un’azione diversa, che si allargò a tutto l’ateneo.
Molti anni dopo, nel 2008, nel quarantesimo anniversario di questi fatti, fu organizzato un weekend alla Columbia per ricordare quello che era accaduto quattro decenni prima. Io partecipai, ma notai che a quarant’anni di distanza la spaccatura era ancora fonte di grande dolore, soprattutto per i bianchi. Proprio durante l’anniversario, gli studenti neri spiegarono con più chiarezza le loro posizioni e credo che alla fine le due parti siano giunte a una sorta di intesa. Ma ci sono voluti quarant’anni per arrivarci.
Rimanemmo in quell’edificio per cinque- sei giorni, dopodiché, visto che il braccio di ferro tra gli studenti e l’amministrazione continuava, il rettore della Columbia chiamò la polizia antisommossa di New York. E così la notte del 30 aprile fui arrestato insieme ad altri settecento studenti e passai la notte in cella.
Alla fine ritirarono le accuse, anche perché era complicatissimo procedere legalmente contro ogni singolo studente, e non subii nessuna condanna.
Di quella notte ricordo che eravamo tantissimi tutti insieme, ci avevano stipati nelle celle.
L’unica cosa che mi torna in mente con precisione è un poliziotto che ghignava e si fregava le mani, era molto contento che tutti quegli studenti capelloni fossero finiti in prigione. Scherzava sul fatto che era la notte del 30 aprile e disse: «Domani è il primo maggio, mi sa che non potrete partecipare alla vostra bella manifestazione di sinistra perché, ah- ah, siete in prigione».
Una parte dei Weathermen teorizzava e praticava la lotta armata. È successo, credo, a partire dal ’ 69. A Chicago ci furono i cosiddetti “Giorni della rabbia”, durante i quali i manifestanti si scontrarono con duemila agenti. Fu un vero disastro. Dopo quei fatti entrarono in clandestinità. Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta compirono molti attentati dinamitardi. La gente adesso non ne parla più. Si trattava di un movimento clandestino piuttosto attivo.
Fecero parecchie stupidaggini anche diversi anni dopo: nel 1981, per esempio, rapinarono il furgone portavalori di una banca – la chiamarono la Brink’s robbery.
Nello scontro a fuoco rimasero uccisi un agente di sicurezza della banca e due poliziotti. Uno degli studenti della Columbia, Dave Gilbert, è ancora in carcere a causa di quella rapina, sta scontando una condanna a settantacinque anni.
Il problema dell’estrema sinistra radicale dell’epoca era che si illudeva che negli Stati Uniti ci fossero davvero le condizioni per fare la rivoluzione. Erano solo cento o duecento, e si lasciarono talmente trascinare dalle ideologie su cui basavano la loro esistenza, al punto da convincersi che loro, duecento ex studenti del college, fossero in grado di abbattere il governo degli Stati Uniti. Era un’idea assurda, del tutto irrealistica. Alla fine qualunque loro azione è stata un fallimento e il gruppo andò in pezzi. Che spreco. Ma a quei tempi era così: c’era gente convinta che quelle azioni avrebbero davvero cambiato le cose. Voglio raccontare un’ultima cosa, per dare l’idea dell’importanza che ha avuto la Columbia per il movimento. Nell’estate del 1969 entrai in un ufficio postale. Negli uffici postali ci sono delle bacheche in cui sono esposti i dieci criminali più ricercati dall’Fbi. Guardai le fotografie e scoprii che ne conoscevo sette: i miei ex compagni di studi appartenenti all’estrema sinistra radicale erano ricercati dall’Fbi.
Non dimenticherò mai il momento in cui vidi le facce di quelle persone che conoscevo, identificate come criminali dal governo degli Stati Uniti.
Testo raccolto da Paolo Flores d’Arcais, tradotto e curato da Cristiana Mennella