la Repubblica, 26 gennaio 2018
Pd e destra, quale classe dirigente
Sono noti i punti deboli del Pd in questa campagna elettorale. Il principale riguarda il declino del segretario Renzi, confinato agli ultimi posti negli indici di popolarità quando meno di quattro anni fa aveva trionfato nelle elezioni europee. La frattura fra l’immagine del leader e l’opinione pubblica spiega quasi tutto dello psicodramma in cui si sta avvitando il Pd. Tuttavia il centrosinistra allargato ha ancora un vantaggio rispetto ai concorrenti: riesce a esprimere in modo visibile una classe dirigente sperimentata. Pur non esenti da critiche, i volti e i nomi di Gentiloni, Padoan, Delrio, Calenda (benché non candidato), per citare i principali, costituiscono un piccolo patrimonio di serietà offerto agli italiani. L’intesa con Emma Bonino e altri esponenti di correnti politiche varie, dai centristi cattolici ai Verdi, rafforza questa tendenza a presentarsi come un’area coerente nel segno del realismo.
Può darsi che tutto questo serva a poco o sia addirittura controproducente nel momento in cui prevale la spinta a rovesciare i vecchi equilibri e a cercare soluzioni radicali al malessere diffuso.
Ma è quanto di meglio il Pd può mettere in campo nel confronto con gli avversari. I quali fra tre giorni dovranno dimostrare agli italiani se sono in grado o no di esprimere a loro volta una classe dirigente. Finora non sembra che ci stiano riuscendo. I Cinque Stelle, e non è una novità, si affideranno al solito esercito di sconosciuti, simbolo della società civile che si auto-governa perché non si fida dei “professionisti” della politica. Con qualche minima eccezione: un economista che lavora in Sud Africa, Fioramonti, l’ex direttore di Sky, Carelli, e pochi altri.
Quanto al centrodestra, non è un caso se Berlusconi, a intervalli di tempo quasi preordinati, tira fuori dal suo cilindro un candidato premier, offerto ai mass media con un bel sorriso ma anche con scarsa convinzione. L’ultimo è Antonio Tajani, presidente da pochi mesi del Parlamento europeo e probabilmente destinato a restare a Bruxelles. In ogni caso non si tratta di un’investitura che Berlusconi sarebbe comunque impossibilitato a garantire, visto che non si vota per scegliere il premier (il compito, come è noto, spetterà al capo dello Stato e solo a lui). È invece il tentativo di legare la causa del centrodestra a un volto riconoscibile.
Anzi, a più volti evocati nel corso delle settimane. Tutti insieme formano quel gruppo dirigente valido anche sul piano mediatico che il centrodestra non ha e di cui Berlusconi a tratti sente la mancanza. Ma è un gruppo avvolto dalla nebbia, non una squadra di governo potenziale come quella messa in campo dal centrosinistra.
Può darsi che di qui al 4 marzo Berlusconi corra ai ripari. Ma la stessa logica della sua coalizione, dove è in atto una serrata competizione interna, rende poco credibile questa eventualità.
Salvini e in misura minore Giorgia Meloni hanno il problema di distinguersi da Berlusconi, cioè dall’uomo che è una sorta di cannibale nei loro confronti. Per cui ognuno cercherà di indicare attraverso le candidature un proprio mini-gruppo dirigente che varrà più che altro come copertura del leader. In questo Salvini ha agito con una certa tempestività: i nomi dell’avvocato Bongiorno e degli economisti euro-scettici Bagnai e Borghi sono la risposta leghista al tema della classe dirigente. Leghista ma non dell’intero centrodestra. E infatti non si riesce a immaginare come possano convivere, in un ipotetico governo di destra, Tajani e Bagnai.