Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  gennaio 26 Venerdì calendario

L’amaca

Un giudice che prende con due dita, come se fosse una carta sporca, la memoria difensiva del suo imputato, e la butta per terra platealmente, rifiutandosi di leggerla, non è un buon giudice. Anzi, non è nemmeno un giudice.
Per quanto grave e disgustoso sia il crimine commesso (e l’abuso sessuale su ragazzine minorenni affidate alle tue cure, reiterato lungo gli anni, lo è), un processo non è uno show inquisitorio, non prevede l’umiliazione plateale dell’accusato, non è fatto per soddisfare gli umori della folla. Un processo è un rito – altissimo – nel quale si cerca di dare forma, regole e dignità al giudizio sui delitti, sulle debolezze e la ferinità umana, sull’offesa e il dolore che provocano.Se dal linciaggio e dalla giustizia sommaria si è passati ai codici, alle aule di giustizia, alla liturgia delle formule giuridiche, è perché siamo rinciviliti.
Lentamente ma fortunatamente rinciviliti.
La giudice Rosemarie Aquilina, condannando a una pena giustamente enorme (un sostanziale ergastolo) il medico delle ginnaste americane, Larry Nassar, dopo essersi rifiutata di leggere la memoria difensiva ha anche voluto aggiungere di considerare «un onore e un privilegio» emettere quella sentenza. In un Paese di civiltà giuridica appena decente, un giudice così fuori dalle righe verrebbe richiamato ai suoi doveri.Nel frattempo, Aquilina è diventata una eroina dei social. Appunto.