la Repubblica, 26 gennaio 2018
L’amaca
Un giudice che prende con due dita, come se fosse una carta sporca, la memoria difensiva del suo imputato, e la butta per terra platealmente, rifiutandosi di leggerla, non è un buon giudice. Anzi, non è nemmeno un giudice.
Per quanto grave e disgustoso sia il crimine commesso (e l’abuso sessuale su ragazzine minorenni affidate alle tue cure, reiterato lungo gli anni, lo è), un processo non è uno show inquisitorio, non prevede l’umiliazione plateale dell’accusato, non è fatto per soddisfare gli umori della folla. Un processo è un rito – altissimo – nel quale si cerca di dare forma, regole e dignità al giudizio sui delitti, sulle debolezze e la ferinità umana, sull’offesa e il dolore che provocano.Se dal linciaggio e dalla giustizia sommaria si è passati ai codici, alle aule di giustizia, alla liturgia delle formule giuridiche, è perché siamo rinciviliti.
Lentamente ma fortunatamente rinciviliti.
La giudice Rosemarie Aquilina, condannando a una pena giustamente enorme (un sostanziale ergastolo) il medico delle ginnaste americane, Larry Nassar, dopo essersi rifiutata di leggere la memoria difensiva ha anche voluto aggiungere di considerare «un onore e un privilegio» emettere quella sentenza. In un Paese di civiltà giuridica appena decente, un giudice così fuori dalle righe verrebbe richiamato ai suoi doveri.Nel frattempo, Aquilina è diventata una eroina dei social. Appunto.