la Repubblica, 26 gennaio 2018
Mueller, il superpoliziotto che non sbaglia una mossa fa notizia anche se non parla
New York «Sopravvissi al Vietnam: al contrario di tanti eroici compagni che non ce la fecero. Da allora ho sempre saputo che il mio dovere era uno solo: servire l’America al meglio». C’è voluto un ex veterano pluridecorato, l’investigatore più integerrimo d’America, a stanare Donald Trump. Quel Robert Mueller, 73 anni, procuratore speciale che indaga sul Russiagate, che dopo mesi di strali su Twitter cercando di minarne la credibilità oggi The Donald assicura: «Non vedo l’ora di poterlo incontrare».
A chiamare Mueller d’urgenza per prendere le redini dell’indagine sugli incontri fra staff di Trump e russi fu il numero due del dipartimento di Giustizia Rod Rosenstein lo scorso maggio. Il capo dell’Fbi James Comey era stato licenziato da Trump, innervosito da quell’indagine che ronzava troppo vicina a lui. E anche il ministro della Giustizia Jeff Sessions se ne era ricusato per via della sua partecipazione alla campagna. «Circostanze uniche impongono una figura indipendente rispetto alla catena di comando formale», disse Rosenstein nel nominare il procuratore tutto d’un pezzo, così gradito al Congresso da garantirgli il raro privilegio di un budget indipendente.
L’investigatore che «fa notizia anche quando si trincera dietro il riserbo assoluto», come ha scritto di lui il Time inserendolo nella lista delle persone più influenti del 2017, ha un curriculum imbattibile. Eroe di guerra, repubblicano, 12 anni a capo dell’Fbi: chiamato da George W. Bush nel 2001, una settimana prima dall’attacco alle Torri gemelle. Fu negli anni della guerra al terrore che il superpoliziotto forgiò la sua reputazione d’investigatore integerrimo. Impegnato a riorganizzare l’agenzia che aveva fallito nel prevenire l’attacco di Bin Laden, non lesinò decisi scambi di vedute con l’allora presidente Bush che, ad esempio, non approvava la sua presa di distanza dai metodi d’interrogatorio della Cia. Le tensioni furono tali che nel 2004 Mueller minacciò di dimettersi assieme al suo braccio destro di allora – un signore chiamato James Comey trovando inaccettabile il programma di intercettazioni senza autorizzazione voluto dall’Amministrazione. Tanta autonomia gli procurò la stima di Barack Obama. Che non solo lo confermò: ma scaduti i 10 anni d’incarico ottenne un permesso dal Congresso per lasciarlo in carica due anni in più, trasfor-mandolo nel più longevo capo di quell’agenzia dai tempi del potente ( e controverso) Edgar Hoover. Specializzato in questioni legate alla cybersicurezza – ha tenuto corsi a Stanford – nel corso delle sue segretissime indagini sul Russiagate il taciturno Mueller è stato capace di trovare una backdoor per mettere legalmente le mani sulle email del transition team, la squadra che guidò Trump nella fase di transizione fra la vittoria dell’ 8 novembre 2016 e il 20 gennaio 2017, periodo in cui avvennero alcuni incontri fra l’ex generale Michael Flynn e l’ambasciatore russo Sergey Kislyak centrali nell’indagine. Definito dallo scrittore ed ex procuratore di Chicago Scott Turrow «un eroe da romanzo, che finora non ha mai sbagliato una mossa» in un’intervista a Repubblica, Mueller sembra aver creato una macchina perfettamente in grado di fare giustizia. A costo di separarsi da fidati agenti se il loro comportamento compromette le indagini: come nel caso di Peter Strzok, finito alle risorse umane dopo certi sms ostili al presidente che rischiavano di minare la neutralità dell’inchiesta. Dal suo ufficio non è mai uscito un leak, un’indiscrezione. Tutto il contrario di quel Donald Trump che non vede l’ora di vederlo. E chissà quante ne avranno da dirsi.