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 2018  gennaio 26 Venerdì calendario

Caparezza: «L’acufene? Sono stati due anni difficili. Un incubo salire sul palco. Poi è finito»

«Quello vive in mondo suo. Me lo dicono da quando sono bambino». E alla fine Caparezza un mondo suo se lo è costruito. La confusione è solo apparente. «Mi sono creato un mio mondo parallelo. Facevo già demo di canzoni quando avevo 12-13 anni. E le usavo per far sfidare in gare canore i pupazzi di He Man e i Masters of the Universe. Mi inventavo anche una discografia per ognuno di loro: realizzavo le copertine dei loro album con i post-it». Allora era solo Michele Salvemini, classe 1973, un ragazzo con tanta fantasia e la passione per l’hip hop. Le cose sono andate avanti. «Ho prodotto 15 dischi e anche un vero 45 giri per Lamadeus Cacusso, artista senza mercato, un amico che vive in Lussemburgo e nella vita fa un altro lavoro. Ho altri piani fra demenziale ed elettronico con persino finti dischi d’oro appesi in studio». Conclusione: «Cantare per me è fuggire dal mondo, stare in una bolla dove tutto segue il tuo tempo mentre fuori ci sono incombenze e frustrazioni».
Dopo Michele Salvemini e prima di Caparezza, c’è stata un’apparizione di Miki Mix. Fa impressione a vederlo – recuperandolo nel gran pentolone di YouTube – coi capelli a spazzola sul palco di Sanremo 1997: quasi una parodia di un rapper tanto era stato snaturato il genere per renderlo compatibile col gusto nazionalpopolare di Rai1. «La popolarità è arrivata tardi, a 30 anni, dopo aver commesso molti errori e passi falsi. MikiMix è stato un tassello importante della mia carriera, anzi un campanello d’allarme. Oggi grazie alla rete e ai socialè più facile per un artista essere coerente. Io ero un ragazzino che arrivava da Molfetta, non sapevo nulla... accettai dei compromessi. Però ho capito la forza di avere una posizione coerente. E da allora l’ho mantenuta».
L’istinto Messo in solaio Miki Mix, nel 2000 è arrivato Caparezza. Rapper anomalo, ma questa volta per scelta. «Da anni non decifro quello che faccio, seguo l’istinto». Nel 2003 «Fuori dal tunnel» diventa un tormentone. Suo malgrado. «Non ho vissuto bene il successo, non me la sono goduta. Per un paio di tour l’ho addirittura tolta dai concerti. Non volevo fosse presa come la moda del momento». Una canzone che faceva satira sul divertimento facile delle discoteche con le cubiste e sul trash televisivo finiva per essere ballata proprio in quei locali e a fare da colonna sonora a quelle trasmissioni. «Il momento peggiore fu quando uno si avvicinò, mi allungò una borsa e mi chiese: “Me la griffi?”. Trovai tutto rivoltante». 
La reazione fu la fuga dal successo. «Con il disco dopo, “Habemus Capa”, dissi la mia su tutto: Lega, politica, Auditel. Passai dalle 130 mila copie vendute di “Verità supposte” a 40 mila. E anche dal vivo ci fu qualche difficoltà». 
Si possono fare grandi numeri senza farsi vedere in televisione. «Mal tollero il mezzo, non mi sento a mio agio. Aveva ragione Pier Paolo Pasolini: tutto ciò che passa dalla tv è come se fosse ex cathedra». Meglio macinare chilometri e palchi. «È una strategia che forse non paga nell’immediato, ma crea pubblico nel lungo periodo. Adesso incontro i primi fan che mi dicono: “Sono cresciuto con le tue canzoni”. Ho scelto la strada lunga, mettere mattone su mattone».
La prigionia Così il tour di «Prisoner» è arrivato ai sold out nei palazzetti e il 7 febbraio riparte da Modena con una nuova serie di concerti. «Uno spettacolo assurdo che non riesco a decifrare. È molto teatrale, verrebbe da dire musical ma è altro. Mi alzo in volo sul palco... Il concetto è quello dell’album, libertà e prigionia. Nella prima parte ci sono i brani del nuovo disco: siamo prigionieri sul palco con dei corvi-carcerieri che ci tengono nel mirino di fucili-chiave. Nella seconda parte c’è l’evasione e le canzoni del repertorio». 
«Prisoner» è un disco nato da un momento di difficoltà. Alla fine del tour precedente Michele si è accorto di soffrire di acufene, un fischio continuo nell’orecchio. «Non esiste cura e lo porterò con me per sempre. Non posso più ascoltare musica in cuffia. Sono andato in crisi: il mio corpo era la mia prigione. Sono stati due anni difficili, per questo ne è nato un disco cupo e oscuro». Non è stato facile accettare il destino. «Facevo incubi legati ai concerti. Ho sognato di dimenticare tutta la scaletta. Uno della band mi tranquillizzava: “nessun problema, i testi li trovi sul pianoforte”. Ma io non suono il piano!». È arrivata la prova palco. «Alla “prima” si è annullato tutto. È stato come ritrovare una persona che hai lasciato per un lungo periodo. Ho ancora paura, sul palco continuo a manovrare i volumi dei monitor che ho nelle orecchie. Però quella dimensione tira fuori la parte di me che non ho nella vita: il sorriso». 
Quella dell’essere incompreso è una costante. «Vieni a ballare in Puglia», brano del 2008, ha avuto lo stesso destino da incompresa di «Fuori dal tunnel». Parla di morti sul lavoro, la suonavano nelle feste di piazza. «Non mi pongo il problema di come venga recepita una canzone. Faccio il disco che vorrei sentire da ascoltatore. Però la reazione fu fastidiosa. Qualcuno non la capì proprio e la prese come un pezzo spensierato. Altri la capirono ma la portarono su un altro livello: i quotidiani locali mi davano del menagramo a casa nostra».
I rich kids Quando ha avuto successo, il movimento rap in Italia si stava riprendendo dal collasso delle posse e dei centri sociali degli anni 90. Lui non c’entrava nulla con quella generazione. Ed è lontano anche dalla nuova scena trap. «L’hip hop è un movimento culturale rapido e in continuo aggiornamento. Una volta c’erano i Public Enemy con la loro visione politica, io ascoltavo i Run DMC che erano all’opposto. Adesso siamo arrivati al disimpegno in stile “rich kids” di Instagram. Mi sento vecchio e distante dai contenuti, però resta il mondo che genera più cose nuove».