Corriere della Sera, 26 gennaio 2018
Di Maio e il professor Razzi
«Parlassi l’italiano come lui, mi vergognerei». Quando ho letto il titolo dell’attacco di Razzi a Di Maio sul sito del Corriere, ci sono rimasto secco. Non tanto per il concetto, ma per l’uso impeccabile della consecutio. Purtroppo era una fake news: per esigenze di sintesi e di sintassi, un titolista compassionevole aveva ritoccato la prosa originale di Razzi, scorrevole come un gessetto sbrecciato sulla lavagna: «Mi vergognerei a voler fare il leader del Paese quando sa l’italiano peggio di me». Vabbè, l’importante è il pensiero. Che, nonostante l’audacia lessicale, resta potente. Il simbolo dell’italiano approssimativo al potere – qui in versione accademico della Crusca – dà dell’ignorante a Di Maio, cioè a uno dei tanti candidati premier di queste strane elezioni, dopo le quali il premier sarà scelto tra quelli che non si sono candidati a farlo. E glielo dà con una giustificazione a prova di bomba, come direbbe il suo amico nordcoreano: io non ho studiato perché da bambino dovevo lavorare, mentre lui non ha studiato per poter continuare a non lavorare neppure da grande.
Senza buttarla in politica, anche perché con Razzi sarebbe difficile, non c’è chi non veda l’enorme differenza tra i due: uno porta i baffi e l’altro no. Ma entrambi conoscono l’attrazione irresistibile di tanti loro connazionali per l’assistenzialismo e si considerano a ragione i detentori del Verbo, anche se magari non proprio di tutti i verbi.