Avvenire, 26 gennaio 2018
Il padre della pecora Dolly non ci crede più
Quando Dolly the Sheep nacque al Roslin Institute di Edimburgo il 5 luglio del 1996 la comunità scientifica, non solo britannica, giubilò per essere riuscita a mettere al mondo un animale con una tecnica destinata – si disse – a curare malattie ritenute fino ad allora incurabili. Più di 250 embrioni sopravvissero alla clonazione, ma solo Dolly, creata dalla cellula mammaria di una pecora adulta, riuscì a vedere la luce. Molti credettero che l’esperimento avrebbe cambiato radicalmente il modo di curare pazienti affetti da malattie gravi. Eppure più di vent’anni dopo ancora non si riescono a vedere i progressi annunciati nel campo della medicina, ed è tutto da dimostrare che la pecora di Edimburgo sia stata davvero un successo scientifico. Dolly è morta il 14 febbraio del 2003 di morte prematura, per un problema ai polmoni, l’ultimo di una lunga serie di acciacchi che l’affliggevano già da diversi anni. Gli scienziati che la crearono hanno più volte dichiarato che non ci sono prove che la sua morte sia legata alla clonazione: ma anche Matilda, la prima pecora clonata fuori dal Roslin Institute, nata nel 2000 in Australia, è morta tre anni dopo essere venuta al mondo. Lo stesso Ian Wilmut, lo scienziato che ha guidato il team di Edimburgo e che deve a Dolly la sua fama, non è più così convinto che la clonazione sia la strada giusta per le cure del futuro: nel 2007 annunciò infatti che l’a- vrebbe abbandonata per una nuova tecnica che riesce a creare cellule staminali adulte senza ricorrere a embrioni, quella coniata dal giapponese Yamanaka usando frammenti della pelle. In un’intervista alGuardian il professore rivelò che la clonazione non offriva mezzi efficaci per curare malattie. «La nuova tecnica invece – spiegò Wilmut – è senza dubbio più accettabile». Da quel momento decise di non usare più la licenza per la clonazione di embrioni umani che gli era stata garantita due anni prima. «Ci siamo senz’altro fatti prendere un po’ troppo dall’entusiasmo – dichiarò poi – credendo che di lì a poco saremmo riusciti a offrire terapie efficaci ai pazienti. Se scegli di lavorare come ricercatore devi per forza essere ottimista, e spesso l’ottimismo ti fa credere di poter ottenere risultati che poi non consegui. Credo che forse stiamo imparando a essere più realisti e a non commettere più gli stessi errori».
Dunque la tecnica oggi salutata come uno straordinario traguardo è stata abbandonata dal suo iniziatore. Non ieri: dieci anni fa. E dopo le Ips – le cellule staminali pluripotenti indotte che ’folgorarono’ Wilmut – la comunità scientifica sta già lavorando a un nuovo filone di ricerca, promettente e controverso: il gene editing, che permette di intervenire sul Dna tagliando il ’pezzo’ malato’ e ’incollando’ un pezzo sostitutivo sano. Una tecnica che ha grandi potenzialità, ma che solleva altrettanto formidabili interrogativi. Con le domande di Wilmut a orientare scelte sempre più difficili: quali sono i benefici di una ricerca? E quali i rischi? Qualunque sia la risposta, c’è già una certezza: la clonazione è già fuori gioco.