Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2018
Col mini-dollaro i record del petrolio non sono per tutti
Dollaro debole uguale petrolio forte. È un fatto risaputo che i ribassi del biglietto verde favoriscano il rally del barile (così come i rialzi dell’oro e più in generale di tutte le materie prime denominate nella divisa statunitense). Ma lo scenario odierno sui mercati è ben più complesso di quanto sembri a prima vista e non si lascia imbrigliare dai luoghi comuni.
Correlazioni che fino a poco tempo fa sembravano indistruttibili si stanno sgretolando: le petrovalute ad esempio, a cominciare dal rublo russo e dalla corona norvegese, non corrono più a braccetto col greggio. E mentre Brent e Wti volano al record da tre anni – il primo oltre 71 dollari al barile e il secondo oltre 66 dollari nell’ultima seduta – anche la convinzione che vedremo presto riaccendersi le tensioni inflazionistiche sta vacillando. La Banca centrale europea (Bce), come ha detto ieri il governatore Mario Draghi, è anzi propensa a credere che nell’Eurozona i prezzi resteranno stabili nei prossimi mesi. Fra i tanti effetti collaterali del supereuro, che ormai ha superato quota 1,25 sul dollaro, c’è infatti quello di attutire i rincari dell’energia e a cascata quelli di altri beni e servizi.
Il Fondo monetario internazionale (Fmi) in uno studio pubblicato a settembre ha evidenziato che se un rialzo annuale del 10% del petrolio si traduce in un aumento dello 0,4% dell’inflazione a breve. Impiegando questo parametro, evidenzia un’analisi di Reuters, gli Usa dovrebbero sperimentare un incremento dell’1,2% dell’inflazione, contro un più modesto 0,4% per l’Eurozona: il Brent negli ultimi 12 mesi è infatti rincarato del 30% in dollari, ma solo del 10% nella valuta europea.
A complicare gli scenari ci sono comunque anche altri elementi, non ultima la crescita economica, che continua ad essere molto robusta, oltre che sincronizzata a livello globale: il Fmi pochi giorni fa ha alzato la stima al 3,9% sia per quest’anno che per il prossimo.
Decifrare gli intrecci tra petrolio e valute non è facile, nemmeno per le autorità monetarie. Eppure sono proprio le loro politiche uno dei fattori all’origine dell’attuale complessità.
È la banca centrale russa, ad esempio, ad aver spezzato –?volontariamente – il legame tra rublo e petrolio, che storicamente era sempre stato molto forte. Svalutando la moneta con continui interventi sul mercato, Mosca sta compensando con incassi record i tagli di produzione concordati con l’Opec: il prezzo del barile in valuta locale è ai massimi storici, intorno a quota 3.900 rubli, contro i circa 3.400 rubli raggiunti nel 2008, quando il Brent aveva superato 150 dollari al barile.
Il prezzo del greggio, in termini nominali, si è spinto di recente a livelli da primato anche in Nigeria, Angola, Kazakstan e Azerbaijan, tutti Paesi che in reazione al tonfo dei mercati petroliferi hanno deciso negli ultimi anni di svalutare la propria moneta o di abbandonare il cambio fisso col dollaro.
Il “dollar peg” resiste tuttora in Arabia Saudita e negli altri Paesi del Golfo Persico, che quindi sono hanno sofferto per intero l’impatto del crollo dei prezzi del barile, tra il 2014 e il 2016. Le loro riserve valutarie sono andate a picco e i rischi non sono ancora finiti: con la Federal Reserve che ha avviato la risalita dei tassi di interesse, le loro banche centrali dovranno fare altrettanto, anche se l’economia è ancora lontana dal tornare in salute: il Pil saudita secondo le stime ha subito una contrazione dello 0,5% nel 2017.
Il legame tra greggio e petrovalute, in generale, sembra essersi spezzato dalla seconda metà del 2017, osserva Société Générale. Da allora il barile si è apprezzato di oltre il 50%, mentre la corona norvegese ha guadagnato poco più dell’8% sul dollaro. Nello stesso periodo il cambio di rublo e dollaro canadese si è rafforzato del 6% circa. Uno dei motivi, secondo gli analisti della banca francese, è che le petrovalute si erano indebolite meno del petrolio nel periodo della crisi. Può avere inoltre influito anche il cambio della curva dei futures sul greggio: i rincari hanno riguardato soprattutto la prima scadenza contrattuale e il passaggio in backwardation (prezzi a pronti più alti di quelli a futuri) ha spinto gli speculatori a privilegiare questo mercato, che offre ritorni più sicuri grazie al rollying yield, rispetto alle scommesse sulle petrovalute.