il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2018
Don Matteo, un’eterna benedizione per la Rai
Il successo di Don Matteo, cappellano della Tv generalista, viene da lontano. Viene dal giovedì, il giorno benedetto della Tv che Mike Bongiorno consacrò al trionfo del quiz e di cui la serie officiata da Terence Hill è la legittima erede. Mai come quest’anno la concorrenza del giovedì è agguerrita, e mai come quest’anno Don Matteo benedice e asfalta Santoro, Formigli, Costantino della Gherardesca e Antonino Cannavacciuolo, Berlusconi, Confalonieri e Zalone. Padri, figli, unti e bisunti.
Anche questi ascolti giunti all’undicesima stagione senza il minimo segno di stanchezza vengono da lontano. Vengono dal fascino discreto di Mario Girotti alias Terence Hill, il Clint Eastwood de noantri: occhi cerulei e dizione sommessa, smozzicata, come se ci fosse sempre qualcuno da confessare. Vengono dall’intuizione avuta 17 anni fa da Enrico Oldoini, regista con qualche cinepanettone sulla coscienza da farsi perdonare.
Vengono soprattutto dalla Lux Vide fondata da Ettore Bernabei e oggi governata dai figli Matilde e Luca. Pio, paterno e censorio (in una parola: democristiano), incontrastato dg Rai nell’era Fanfani, Bernabei riteneva che il mezzo avesse due vocazioni inseparabili: creare consenso ed educare il popolo. E dopo Non è mai troppo tardi, il modo più sicuro per educare il popolo è la fiction.
Da I ragazzi di Padre Tobia a I racconti di Padre Brown, la comedy talare con il prete detective è divenuta una solida specialità nel nostro palinsesto, e Don Matteo ne è l’apoteosi.
Nessun elemento di cronaca, o ascendenza letteraria, turba il suo sorriso; don Matteo prende ordini solo dall’alto, anzi, dall’Altissimo, tutto è così finto in ogni minimo dettaglio che nulla risulta fuori posto. Il basco, la tonaca al vento, le arrampicate in bicicletta sui ripidi acciottolati di Gubbio o di Spoleto, non stiamo a sottilizzare; l’intreccio giallo zafferano con la soluzione del mistero intuita dal don dopo i primi venti minuti, mentre i carabinieri brancolano ancora nel buio durante i titoli di coda, la rivalità con il capitano dei carabinieri che non azzecca un sospetto nemmeno a morire, le sfide con il maresciallo Cecchini di Nino Frassica, che mentre Don Matteo risolve il caso riesce pure a farsi dare scacco matto, i casti amori di canonica, qualche macchietta profuga della commedia all’italiana riconvertita all’umorismo da oratorio.
Pare un fumetto allegato a Famiglia cristiana: ma se oggi come ieri la pancia dell’Italia è tutta casa, parrocchia e caserma, Don Matteo smette di essere la più improbabile delle fiction per diventare un archetipo trasversale, il nuovo Don Camillo senza nemmeno più Peppone tra le palle. Se le serie statunitensi si fanno sempre più inquiete, ambigue, bipolari; se Sky ne insegue le tracce al punto da scatenare su Gomorra polemiche targate anni Cinquanta, questa invece sprizza incenso, speranza e santità alla spina sullo sfondo di scenari da cartolina illustrata, Saluti dalla Verde Umbria, firmato la Film Commission.
Se questo ancora non bastasse, Don Matteo ha un ulteriore asso nella tonaca, il superamento della tradizionale lotta tra il bene e il male a tutto vantaggio del primo. Nei suoi gialli zafferano i buoni sono buonissimi, ma anche i cattivi, in fondo, non sono così cattivi: più che sbagliare, peccano, e se peccano è quasi sempre per infelicità, disperazione, debolezza; lo spettatore va a letto convinto che queste pecorelle smarrite, una volta pagato il loro debito con la giustizia, ritroveranno la retta via.
Interrogarsi sulle metamorfosi di tanti eroi stracult del cinema anni Settanta ci porterebbe ancora più lontano.
Nella sua prima vita Don Matteo lo chiamavano Trinità, menava sganassoni e mangiava fagioli; adesso si è fatto prete, ci dà la benedizione settimanale e la sua conversione è la stessa della gloriosa, perfida commedia all’italiana convertitasi al buonismo della fiction Tv. C’è chi pensa che ormai è fatta, non moriremo democristiani, ma forse gli converrebbe guardare meglio gli ascolti del giovedì.