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 2018  gennaio 25 Giovedì calendario

Caracas é rassegnata a sognare solo concorsi di bellezza

Óscar Pérez, l’ex Poliziotto con la faccia da attore (e infatti anche attore a tempo perso in lm poliziotteschi) che abbiamo visto morire in diretta Instagram a metà gennaio, era stato uno dei capi della rivolta che la scorsa estate aveva fatto vacillare il governo Maduro. Vacillare, non cadere. Per questo, l’omicidio di Pérez e di altri sei militanti anti-chavisti sembra stranamente intempestivo. Sei mesi fa, questi morti avrebbero forse generato altri martiri; oggi la notizia si diffonde in una Caracas anestetizzata, rassegnata, dove nessuno si aspetta cortei di protesta. Sei mesi fa, la superstrada Francisco Fajardo che attraversa la città da est a ovest, la si era vista in tv brulicante di gente che sventolava le bandiere del Venezuela e quelle giallo-nere del principale partito d’opposizione, Primero Justicia; e le cariche, i lacrimogeni, il ragazzino che suonava il suo violino e se lo vedeva requisito e fatto a pezzi dagli agenti motociclisti della Guardia Nazionale (e ne era nata una mitologia planetaria, una gara di solidarietà, coronata dalla consegna in diretta Facebook di un nuovo violino al «Violinista della libertà» Willy Arteaga). Oggi c’è il solito traffico brutale di motorini, auto da rottamare e SUV, ma lungo la carreggiata a quattro corsie anche biciclette e gente a piedi che trascina carretti pieni di cianfrusaglie, rischiando la vita. 
A parte questi disperati, uguali a tutti gli altri disperati non automuniti del Terzo Mondo, i caraqueñi vanno in moto o in macchina, non camminano, anche perché il Venezuela galleggia sul petrolio, e un pieno di benzina costa intorno ai 300 bolívares, che è come dire quasi gratis: meno di una bottiglietta d’acqua da 33 cc, meno di un pacchetto di caramelle, meno di qualsiasi cosa si possa acquistare in un qualsiasi negozio. «Tecnicamente», mi spiega il taxista che mi ha prelevato a casa e mi depositerà dopo un imbottigliamento di mezz’ora per due chilometri, «tecnicamente è più conveniente fare il giro della tangenziale a 80 all’ora, no a esaurire il serbatoio, che starsene a casa a leggere un libro con la luce accesa. Costa di più». 
TUTTO IL RESTO, A PARTE la benzina, o non si trova o si trova a prezzi che sembrano stare in un altro ordine di grandezza rispetto agli stipendi medi: anche i beni di prima necessità come il pane, il latte, la verdura. «Non ho idea di come facciano», è il commento che sento più spesso da parte degli stranieri che vivono a Caracas e sono pagati in dollari o in euro. Molti di quelli che restano in vita ce la fanno grazie ai pacchi del governo. Una mattina vedo una lunga coda davanti a una banca che adesso non è più una banca ma un uf cio statale in cui distribuiscono pacchi di cibo e medicine. Ma per ottenerli bisogna avere il «Carnet de la Patria», che identifica chi lo possiede come amico del governo Maduro. Chi non ha il «Carnet de la Patria», o chi non ce la fa nonostante l’elemosina del governo, fa la fame o fruga nella spazzatura – ne vediamo a decine darsi da fare attorno ai cassonetti verso il tramonto, quando chiudono i negozi – o lascia il Venezuela (come nel romanzo Memorias de la inconformidad di Mariza Ba le e Enrique Bravo, uscito l’anno scorso). 
«Non c’è mai stata tanta povertà come in questi ultimi cinque anni», mi dice Julia, ex impiegata al ministero e adesso speaker radiofonica con uno stipendio molto al di sotto della sussistenza. «Prima esisteva un commercio, il mercato all’aperto del mio quartiere era pieno di bancarelle. Adesso ne sono rimaste tre o quattro. Prima, prima di Chávez, lo Stato era corrotto, violento, anche, ma era possibile partire dal niente e costruire qualcosa», e mi racconta di un cugino intraprendente che negli anni Novanta è andato via da Caracas e si è messo ad allevare le api nella casa di campagna dei nonni e di arnia in arnia è diventato uno dei più grandi produttori di miele del Venezuela. «Ma Chávez e Maduro hanno dichiarato una guerra insensata agli imprenditori, anche ai piccoli imprenditori come mio cugino, con controlli capricciosi, tasse assurde che scoraggiano la produzione, e questi sono i risultati... Oltre al fatto che la gente non compra più il miele perché non ha i soldi per il pane». 
Miserabile sul versante della produzione materiale (il petrolio ai minimi storici, la manifattura allo sbando per la cattiva gestione e il costo proibitivo delle materie prime, un’agricoltura pianificata talmente assurda che nei mercati comincia a essere difficile trovare anche cose che qui crescono ai bordi delle strade, come i manghi e le noci di cocco), l’economia venezuelana gira invece a pieno regime in quel particolare settore dell’Immaginario che è il glamour, la produzione e il consumo della bellezza. Dall’anno di fondazione del concorso, 1952, il Venezuela ha avuto sette Miss Universo. Di più ne hanno avute soltanto gli Stati Uniti, otto. Ma il Venezuela ha 30 milioni di abitanti, gli Stati Uniti 325. In un Paese che non ha ormai molti motivi d’orgoglio, questo è un primario motivo d’orgoglio. E gli ultimi sono stati anni da record soprattutto grazie alla gura più eminente della mitografia trash venezuelana, lo “Zar de la belleza” Osmel Sousa, presidente della organizzazione Miss Venezuela, consigliere delle dive, divo televisivo a sua volta (colonna del reality show Nuestra Belleza Latina) nonché titolare di Perfect 10, un prestigioso centro estetico che, leggo sul volantino, presta i suoi servizi sotto lo slogan “No hay gente fea. Hay gente sin arquitectura”, servizi che vanno dalla depilazione ordinaria allo sbiancamento anale, alla “ampliación del punto G”. 
Per le ragazze venezuelane è uno dei pochi modi per emanciparsi, lasciare il villaggio, farsi una vita diversa da quella dei genitori. Perciò non stupisce che le aspiranti miss siano legioni e molte di queste aspiranti non siano neanche particolarmente avvenenti. Entrando da Jesús Morales, il parrucchiere dell’alta borghesia caraqueña e delle concorrenti ai concorsi di bellezza, ne vedo una abbastanza ordinaria, sui vent’anni, che si sta facendo tagliare i capelli; ha un cerotto sul naso, segno di un’operazione recente. Le ragazze meno belle – mi spiega uno dei parrucchieri di Jesús Morales – si pagano tutto, anche gli eventuali interventi chirurgici. «È senz’altro il caso di quella del cerotto», dico al parrucchiere. «Non è detto», risponde lui, evidentemente abituato più di me a veder sbocciare i cigni dagli anatroccoli. Mentre le più belle hanno tutte dei patrocinantes, parola che a seconda dei contesti si può tradurre come sponsor, investitori, alleati, agenti, protettori e nei casi meno allegri papponi. L’investimento, di solito, paga. 
Le miss che non ce la fanno a diventare Miss Venezuela o Miss Universo, cioè quasi tutte, si adattano a trofei minori come Miss Carabobo (la regione di Caracas) o Miss Maracaibo, e avanti a scendere. Fanno pubblicità, televisione; e prima di invecchiare cercano di sposarsi bene. Le meno fortunate trovano impiego nel settore dell’accompagnamento professionale, che può essere comprensivo di prestazioni sessuali o no. Dal parrucchiere Jesús Morales l’addetta del reparto unghie mi conferma che questo è il destino di tante. Lei va nelle case di Caracas in cui le aspiranti miss vivono insieme aspettando il concorso e ha visto cose che «a raccontarle non ci si crederebbe», ma ha molta voglia lo stesso di raccontarle e mi dà il suo numero perché la chiami l’indomani. Io segno il numero ma poi non la chiamo perché la frase con cui si congeda è «anche mia glia è una miss». 
IN AEREO, COMPILANDO la dichiarazione dei beni trasportati, si scopre che il Venezuela si chiama “República bolivariana de Venezuela”, e non si può fare a meno di pensare che sono soprattutto i regimi totalitari quelli che cambiano il nome alle cose (il “cachet “che diventa “cialdino”, il “lei” che diventa “voi”) e addirittura alle nazioni: basta vedere quante volte hanno cambiato nome certi Stati dell’Africa centrale governati da delinquenti. Tra tutte, poi, la parola “popolo” è sempre una delle più sospette e in Venezuela non c’è angolo in cui non risuoni. Il ministero della Sanità adesso si chiama Ministerio del poder popular para la salud, e c’è anche un Viceministerio para la Suprema Felicidad Social del Pueblo che al visitatore italiano ricorda – e il ricordo non lascia tranquilli – la puerilità di certi nuovi assessorati romani dell’amministrazione Raggi: l’assessorato alla Crescita culturale, quello alla Persona, Scuola e Comunità solidale. Si atterra, e nella sala d’attesa dell’aeroporto vi accolgono la foto di Chávez accanto al ritratto di Simón Bolívar, la foto di Chávez sotto la pioggia con la scritta “La Patria siempre vencerá”, la foto di Chávez che fissa intenerito il crocifisso e la scritta “Cada día creo más en la idea de Cristo y en su ejemplo”, il cartello #AquíNoSeHablaMalDeChávez appiccicato sui vetri della sala d’attesa, e tutti gli altri cimeli chavisti sparsi nei corridoi al posto dei paesaggi e delle pubblicità. E questo senso di sopruso misto a cattivo gusto prosegue nelle strade, dove si leggono a caratteri cubitali gli slogan del regime (“Aquí se ama a Chávez”) e si vede non la faccia di Chávez ma solo i suoi occhi stampati sui cartelloni stradali, a mosaico sui palazzi del centro o verniciati a stencil, per la campagna pubblicitaria post mortem “Los ojos de Chávez” (“Mirada sincera, pasión verdadera”). 
SI LASCIA ALLORA CARACAS, si passa il fine settimana nell’ex paradiso turistico che è Los Roques (ex perché è ancora un paradiso, ma i turisti sono spariti), si visita l’arcipelago, ci si culla nel meraviglioso Niente degli atolli tropicali. Ma poi la mattina del sabato, passando sulla piazza del villaggio, l’esperienza è un po’ guastata dallo spettacolo dei bambini di sette-otto anni in divisa verde militare che rispondono a domande demenziali sulla “rivoluzione bolivariana” fatte da un tizio corpulento in divisa. La sera me ne parla la titolare di uno dei rari negozietti aperti, scusandosi per lo stato meschino in cui abbiamo trovato l’isola, per la sporcizia e la povertà. Uno dei bambini che ho visto la mattina era suo figlio, ha otto anni e da due, a scuola, è costretto a digerire questa “basura ideológica”. «Sono peggio degli sceicchi: si sono presi il Paese, non lo lasceranno più. Gli adolescenti non hanno visto mai niente di diverso da Chávez e Maduro, pensano che questo sia il modo di fare politica, di vivere». Questo, cioè le divise da balilla, le gesta di Simón Bolívar mandate a memoria e recitate sulla spiaggia di Gran Roque. 
Chiudersi in casa? Non è possibile. Come dice un aforisma di Kafka: «Si è nella loro». Si accende la radio e il programma s’interrompe a metà, senza preavviso, e comincia a parlare Maduro, e non smette per un pezzo, dopodiché il programma che c’era prima dell’interruzione non riprende. È – mi spiegano – la “cadena obligatoria” che no a qualche anno fa partiva una volta al mese, per qualche legge importante o visita di Stato, e adesso c’è ogni giorno: «Hoy también hay cadena», è il commento quasi sorridente dei venezuelani, assuefatti a questi monologhi. Allora si accende la tv, e in tv c’è Con el mazo dando, una specie di tribuna politica di quattro ore a una voce sola, quella del vero numero due del regime venezuelano Diosdado Cabello, ex militare, complessione sica e garbo del lottatore, rapporti sospetti col narcotraffico. Basta ascoltarlo per cinque minuti mentre in tuta in acetato dell’Adidas aizza la folla di un palasport contro i nemici del governo, seduto dietro una scrivania coperta di busti in peltro di Chávez e Bolívar, crocifissi e immaginette della Madonna, e di traverso alla scrivania una bella clava nodosa, quella che dà il nome al programma, Picchiando con la mazza. Cinque minuti: chiunque abbia nella memoria i filmati delle adunate fasciste non riesce a guardare più a lungo.