Sette, 25 gennaio 2018
Egisto Corradi : il re degli inviati si sentiva sempre un praticante
NELLA FOTO CHE LO RITRAE sullo scalone del Corriere della Sera ricorda un attore nella scena di un lm. Forse per la posa, che sembra suggerire qualcosa, forse per il suo vestito gessato che fa molto Anni 40. Un incrocio tra Peter Lorre ed Edward G. Robinson. Ma Egisto Corradi non era un attore del cinema; il ruolo di protagonista lo ha interpretato nel giornalismo, e la parte non l’ha recitata, ma l’ha vissuta in prima persona, sui fronti di guerra di mezzo mondo per poi metterla in scena sulle pagine dei giornali. «era un pacco postale con un indirizzo sbagliato», lo ha definito Giovannino Guareschi, parmense come lui. «Era il più bravo di tutti», ha detto Indro Montanelli: «il più grande dopo Luigi Barzini Senior».
Trascurato nel vestire, ma meticoloso, preciso, maniacale nel lavoro, sosteneva che il giornalismo si fa con la suola delle scarpe perché per trovare la notizia bisogna camminare, andare sul posto, toccare con mano. «Se non vedo», diceva, «se me ne sto lontano dal fronte non riesco a scrivere una riga». «Dopo una battaglia contava i bossoli e nel Polesine, durante la piena del Po, aveva piantato le proprie canne sugli argini per controllare il livello dell’acqua: non si dava dei dati ufficiali», ha raccontato Ettore Mo, che lo considerava «il principe degli inviati di guerra», il suo idolo. Re Artù. Quando lo incontrava in via Moscova vicino alla sede del Corriere e lo vedeva camminare con la sua andatura ciondolante, gli si inginocchiava davanti chiedendogli di consacrarlo cavaliere della Tavola Rotonda: «“Alzati burlone”, diceva lui tirandomi per il ciuffo». Alla ne l’investitura ci fu e avvenne a Teheran durante la rivoluzione khomeinista. «Era arrivato nel tardo pomeriggio», ha raccontato Mo. «Bussò alla porta della mia stanza, la valigia ancora in mano. “Scusa”, disse, “io sono stanco, schiaccio un pisolino. Se fai un giro in città, e raccatti qualcosa, fammelo sapere, per favore. Di te mi do”». Un passaggio di testimone.
AL CORRIERE EGISTO CORRADI arrivò nel 1945, a 31 anni e vi rimase no al 1974 quando seguì Montanelli al Giornale Nuovo. Ma la passione per il giornalismo era scoppiata molti anni prima, intorno ai sedici anni. Scoppiata «così come scoppia un amore in un adolescente», raccontava. Tanto da diventare rosso ogni volta che passava davanti alla Gazzetta di Parma. «Ero tutto un batticuore, guardavo le finestre del giornale come un innamorato timido guarderebbe le finestre dell’amata ignara». E fu proprio la Gazzetta di Parma a offrigli l’occasione per l’approccio tanto desiderato. Galeotti furono i corsi di giornalismo organizzati dalla Federazione fascista alla ne dei quali Corradi rimase in redazione come volontario. E, senza stipendio, imparò un mestiere: dalla correzione di bozze alla stesura delle notizie di cronaca. Perché, diceva, «per chi intenda fare il giornalista non c’è migliore scuola di quella del giornale di provincia». Dopo questa esperienza durata circa tre anni durante i quali lavora come impiegato di giorno e «allievo giornalista» di notte e che solo la campagna di Grecia – alla quale partecipa come sottotenente della Julia – e quella di Russia interrompono, arriva a Milano per entrare nel quotidiano di via Solferino. L’inizio è da collaboratore. Mischiandosi ai contrabbandieri scrive la storia dei traffici di frontiera con la Svizzera. Poi, con una carta di identità falsa, segue attraverso il San Bernardo gli emigranti clandestini, lavorando con loro in segheria. I suoi reportage piacciono e viene assunto. Da quel momento diventa una delle firme di punta del giornale, per il quale racconterà i fatti italiani – dal disastro del Vajont all’alluvione del Polesine alla morte di Coppi – e internazionali – dalla guerra in Marocco ai colpi di Stato in Siria, dall’insurrezione ungherese del ’56 alla guerra del Vietnam, Paese che gli rimarrà nel cuore.
«DI SERVIZIO IN SERVIZIO mi sono volati via i mesi, le stagioni, gli anni, quasi l’intera vita», dirà. «Un turbine, come una moviola troppo veloce. Eppure ho l’impressione di aver cominciato a lavorare pochi mesi fa, di essere ancora praticante». Perché quel mestiere «incredibilmente faticoso sia per l’intelletto che per il corpo»; quel mestiere che richiede una curiosità «innata, di intensità alta e costante»; quel mestiere «cuore in gola», fatto da uomini nei quali «c’è un pizzico del globe trotter, dell’esploratore, della spia, del contrabbandiere, del poliziotto, del picaresco, del turista»; bene, quel mestiere è sempre stato il carburante della sua vita, una missione, ma anche una cura contro il dolore per la morte della glia adolescente. L’inviato, diceva, «deve sapere coniugare un solo verbo: scarpinare. Deve girare, annusare, tentare di capire la gente, i governi». Un insegnamento prezioso in tempi di fake news, ora che si pensa che attraverso internet si arrivi ovunque, e che la Rete possa sostituire le suole delle scarpe. «Un rispetto per la verità come il suo nessuno di noi l’ha mai avuto», ha detto Montanelli. «Arrivava ad aspetti quasi maniacali. Una volta per scrivere un pezzo sulla guerra russonlandese mi chiese quanti bottoni, e disposti su quante le, aveva la divisa dell’esercito nnico. Non lo ricordavo e tirai a indovinare: due le di tre bottoni l’uno. Quando, ad articolo uscito, venne a sapere che in realtà i bottoni erano quattro, mi tolse il saluto per mesi».