Sette, 25 gennaio 2018
Lotta al crimine a colpi di scopa
LO SCORSO MESE DI MAGGIO, la giornalista giapponese shiori ito ha denunciato una violenza sessuale subita da un collega famoso, il volto televisivo Noriyuki Yamaguchi: l’avrebbe drogata, trascinata in una stanza d’albergo, violentata mentre lei non era cosciente. la giovane, all’epoca stagista, ha raccontato la sua esperienza prima con una conferenza stampa, poi con un libro (uscito a ottobre). lo ha fatto anche in tribunale, ma le indagini sono state archiviate dopo due mesi. le reazioni del pubblico alla notizia sono state tiepide, quasi scettiche: mentre in occidente le donne molestate o aggredite hanno creato un vero e proprio movimento di denuncia, con l’hashtag #metoo sui social e non solo, è molto raro che in Giappone questo succeda.
La testimonianza di Shiori ito racconta la difficoltà di uscire allo scoperto in un paese dove, sulla carta, i tassi di violenza sessuale sono bassi. Ma l’atteggiamento della società e delle forze dell’ordine è spesso diffidente verso chi denuncia un abuso o uno stupro.
IL GIAPPONE HA UN TASSO di criminalità tra i più bassi al mondo. la forma di violenza sessuale più presente nel discorso pubblico – e verso cui si sono prese contromisure più di recente, ad esempio le carrozze per sole donne nei treni – sono i cosiddetti chikan: il termine indica, generalmente, molestatori e stupratori, ma nell’uso comune designa soprattutto i molestatori da metropolitana, che approfittano dell’ambiente affollato per toccare o abbrancare sconosciute. Tutte le studentesse, a partire dalle medie, imparano prima o poi a farci i conti. Il discorso pubblico sulla violenza di genere, cioè, riguarda soprattutto la sua versione meno cruenta.
NON È STRANO. Se l’aggressività verbale è spesso il sintomo e la premessa di quella sica, il Giappone sembra aver immaginato un efficace antidoto culturale alla violenza: la lingua giapponese pare costruita per non nominare mai le cose come sono, ma per continuare a girarci intorno. Non esistono, ad esempio, le parolacce. Per molti è una cultura ipocrita. Ma la poesia non funziona forse allo stesso modo?
I rapporti di lavoro, ad esempio, sono sempre impostati sul keigo: il linguaggio formale, che è la modalità della deferenza e del rispetto. E anche fuori dal contesto lavorativo, abbandonare questo codice è letto come il primo segnale di una perdita di controllo che disturba. È di conio giapponese, infatti, anche il concetto di power harassment: l’atteggiamento cioè di un capoufficio, o un superiore, eccessivamente duro nei toni, sgarbato, morticante.
Questo modo di comportarsi, ad esempio, è costato il posto a Mayuko Toyota, una dirigente quarantenne del partito liberale (attualmente al governo), accusata di power harassment dal proprio segretario. Stufo delle sue vessazioni e sfuriate, il dipendente l’ha registrata e ha diffuso online la sua voce: milioni di giapponesi ne hanno ascoltato le angherie, scandalizzati, e lei è stata costretta a dimettersi. Parlar male in Giappone è segno di pensar male, dunque di una cattiva educazione.
IL RISPETTO DELLA FORMA NON È, per i giapponesi, un riflesso inconscio o genetico. Fa parte di un percorso evolutivo tutt’altro che naturale e che si apprende duramente a scuola. Confrontiamolo con quanto è accaduto in un altro Paese: nel 2011, il candidato alla presidenza Usa Newt Gingrich propose che le scuole, per tagliare i costi di gestione, licenziassero i bidelli e pagassero gli studenti per occuparsi delle pulizie. Negli Stati Uniti l’idea sembrò un’utopia (e non fu accolta con entusiasmo). Da sempre, invece, tutti i ragazzi giapponesi dai 6 ai 17 anni si occupano di fare le pulizie in classe, prima e dopo lezione, con orari che iniziano alle 6.30 del mattino. Lo fanno volentieri? Non per forza. Ma con loro spazzano e lavano anche insegnanti e presidi (altro luogo comune sfatato: non è che i giapponesi obbediscano al proprio senso del dovere come automi, piuttosto agli adulti e ai dirigenti tocca dare l’esempio, anziché calare le regole dall’alto).
OLTRE CHE DEGLI AMBIENTI scolastici spesso gli studenti si occupano della pulizia del quartiere. Ogni scuola ha un arsenale di palette, scope e guanti di cotone, e i ragazzi, no alla maturità, raccolgono i rifiuti come operatori ecologici. Questo sforzo extra non accade in tutte le scuole, ma l’idea diffusa è che gli studenti sapranno fissare dentro di sé – e dunque mettere in pratica anche da adulti – il rispetto dell’ambiente, fondamentale ancor più in un Paese molto popolato con poche risorse naturali.
Così fin da giovanissimi i giapponesi interiorizzano il senso del dovere verso la comunità, imparando a sentirsi responsabili di tutto ciò che condividono con la collettività, come un parco, una strada o una panchina (le scritte che sfregiano i muri delle nostre città italiane qui non esistono).
QUESTO OSSEQUIO al mantenimento di un ambiente pulito – il rispetto della forma prima di tutto – vige anche nella prima industria dell’intrattenimento, la tv. Gli spettatori sono trattati come gli studenti a scuola, cioè come utenti che apprendono quello che guardano. E dunque il sesso è sempre solo accennato, le nudità velate, e le notizie degli stupri vengono date senza morbosità. Anche la moda è sobria: mostrare la biancheria intima, ad esempio, è indice di volgarità. Insomma, piuttosto che i contenuti qui conta ciò che li avvolge. O meglio li copre.
È IL REGNO del politicamente corretto? Può sembrarlo. Eppure se tutto l’impianto sociale, a partire dal linguaggio e dunque dall’educazione nelle scuole, è modellato sul rispetto delle formalità, si possono forse creare le premesse per un clima di maggiore serenità. Gli istinti più bassi e violenti, nel rispetto pedissequo delle etichette, perdono la loro forza distruttiva. E una ragazza potrà tranquillamente attraversare il parco di una grande metropoli di notte, da sola, senza timori. A Tokyo, in effetti, avviene così.