Sette, 25 gennaio 2018
Lassù qualcuno non lo amava. Tiberio Mitri, il pugile più bello d’Italia
QUESTO È UN libro raro per la tradizione e il gusto nazionali. Uscì nel 1967 nell’indifferenza assoluta. È l’autobiografia (che doveva essere la base per un lm) di Tiberio Mitri (il pugile italiano più bello della storia, lo definì Gianni Minà), dalla nascita all’abbandono del ring. Non lo scrisse direttamente, ma è pura farina del suo sacco (non era uno scemo, Mitri, anzi), con l’assistenza tecnica (il modo di raccontare è modernissimo) di Bruno Modugno e, soprattutto, di Giancarlo Fusco (come dice in una nota Dario Biagi). Chi non conosce Fusco abbandoni subito questa rubrica e corra a informarsi. Mitri nacque povero ma biondo a Trieste da papà alcolizzato e morto presto. La mamma lavorava in un’osteria e lo af dava a una donna che, col bimbo in braccio, chiedeva l’elemosina e lo pungeva con una spilla per farlo piangere e impietosire i passanti. Anni dopo, Mitri andò dallo psicoanalista (ebbe problemi di alcol e, alla ne, anche di droga) che gli fece domande un po’ da prete: «Se mi ero sognato di mia madre, se mi masturbavo, se avevo mai desiderato di uccidere mio padre».
Trieste, la città più psicoanalitica d’Italia, oltre alla Coscienza di Zeno di Italo Svevo, è stata teatro anche dell’incoscienza di Tiberio.
Da ragazzo, Mitri finì in riformatorio, era un ladruncolo di maniglie d’ottone e di rame. Lo salvarono due cose: la guerra e il pugilato. La sua guerra meriterebbe un libro a parte, tra fucilazioni s orate e foibe evitate per un pelo. Nel pugilato, invece, filò tutto liscio. Lo chiamarono subito il re del k.o. e diventò una star. I suoi concittadini triestini, quando lo vedevano in giro con una ragazza, si raccomandavano: «No far sporcarie che ti te indebolisi». Lui le sporcarie le fece. Le donne gli piacevano molto e lui piaceva molto alle donne. Ed era esigente: «Avevo conosciuto una soubrettina dietro le quinte. Era triestina e ambiziosa. La portai fuori a cena un paio di volte, e successivamente a letto. Era alta con gli occhi orientali, ma aveva le natiche sempre fredde». Un’altra triestina, Fulvia Franco, Miss Italia 1948, se la sposò e cominciarono i guai. Lei scelse il pugile famoso come scorciatoia per entrare nel mondo del cinema. Lui la ribattezzò Miss Polo Nord (perché la sua freddezza non era circoscritta solo alle natiche). Ma riuscì lo stesso a diventare campione europeo dei pesi medi e resistette in piedi per quindici round alla furia di Jake La Motta, il Toro del Bronx. Dietro l’incontro, c’era Frankie Carbo, il boss ma oso della boxe americana. Quando era sceso (giacca Brioni, come sempre elegantissimo dentro e fuori dal ring) dall’aereo sulla pista dell’aeroporto di New York, Mitri era stato accolto da uno che gli aveva detto: «Miezzeca, picciotto, arrevato sei». Tiberio era risalito di corsa sull’aereo: «Me ne vado, i terroni hanno invaso anche l’America».
Ne La botta in testa non c’è la seconda parte della vita di Mitri: da quando diventò attore di cinema a quando morì malamentissimamente a Roma nel 2001. Nella primavera 1997 gli telefonai un pomeriggio per un’intervista. Mentre parlavamo, un assordante scampanìo coprì la sua voce. Gli chiesi di ripetere cosa aveva detto perché a causa del rumore non avevo capito niente. Rispose: «Ha sentito pure lei le campane? Ah, meno male, allora vuol dire che non sono ancora suonato».