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 2018  gennaio 25 Giovedì calendario

Maddalena Crippa: «Gelosia e rancore: non sappiamo più gestirli»

PRIMA DI DIMENTICARE: terminata a Pordenone la tournée con il Riccardo II di William Shakespeare, Maddalena Crippa ha smesso i panni reali ed è tornata a Milano, al Piccolo Teatro Studio Melato, due giorni fa, e solo per altri tre, con Matilde e il tram per San Vittore, spettacolo scritto e diretto da Renato Sarti, tratto dal libro di Giuseppe Valota Dalla fabbrica ai lager e prodotto dal Teatro della Cooperativa, con il sostegno dell’Aned, l’Associazione nazionale ex deportati. L’affiancano Debora Villa e Rossana Mola. E lei ci tiene che nessun partecipante sia trascurato, nei titoli di testa della rappresentazione. 
Con i suoi sessant’anni di energia, l’attrice arriva in teatro direttamente dalla Centrale, trascinando borsa, zainetto, un grosso trolley e una punta di malumore: «Non è possibile che nelle stazioni di Pordenone e di Mestre non ci siano ascensori né scale mobili. Io ancora ce la faccio, ma una persona anziana come può arrampicarsi per le scale con armi e bagagli?». Saluta tutti quelli che incontra nel labirinto di corridoi dietro le quinte, dove arriva l’eco delle ultime prove: per Maddalena Crippa tornare al Piccolo di Milano significa tornare a casa. Giusto in tempo per la Giornata della Memoria. «Il Giorno», corregge, con lei, Renato Sarti, «scusate, ma questo è il Giorno della Memoria. Giornata suona come se si partisse per un’allegra scampagnata. Anzi, è il Giorno delle Memorie, perché sono tante. Si dovrebbero ricordare ebrei, partigiani, operai, rom». 
Ha ragione. Il Giorno. E in questo caso è il giorno di Matilde: chi era? 
«Quella di Matilde è una delle storie raccolte da Giuseppe Valota fra i famigliari dei lavoratori delle fabbriche a nord di Milano. È un capitolo poco noto: durante gli scioperi proclamati nel 1943, tedeschi e fascisti rastrellarono 570 operai, strappandoli di notte alle loro case e alle loro famiglie per portarli in carcere, generalmente a Bergamo, da dove poi furono inviati nei campi di concentramento. Tornarono in meno della metà. Matilde aveva 11 anni, quando suo padre, il dipendente della Breda Renato Sgobaro, nome di battaglia “Lupo”, fu arrestato, torturato e ucciso a San Vittore. Anche sua madre sparì, deportata a Bolzano. Ma lei, rimasta sola a casa, non lo sapeva e aveva preso il tram per San Vittore, nella speranza di avere almeno notizie del padre. Abbandonata, sotto i bombardamenti si perde per Milano e la gente sul tram cerca di aiutarla, di indicarle la strada per la prigione». 
Tre donne in scena, come mai? 
«Perché sono soprattutto voci femminili a ricordare e a testimoniare. Gli uomini, i mariti, i padri, i fratelli erano stati portati via nel cuore della notte. Erano le donne, il giorno dopo, a cercarli a San Vittore, a San Fedele o alla caserma di Bergamo. Prendevano il Gamb de Legn, il trenino a vapore che, a 15 chilometri l’ora, collegava Milano e i paesi dell’hinterland, e andavano a cercare notizie dei famigliari. Eppoi perché sono state le donne spesso a dare il via alle rivolte: lo sciopero delle ventimila camiciaie a New York nel 1909, o quello del pane e della pace delle donne russe nel 1917. Anche nel ’43 furono le lavoratrici del reparto bulloneria della Falck Concordia di Sesto San Giovanni a ri utarsi di riprendere il lavoro, dopo che in mensa era stato servito loro mezzo uovo lesso a testa. Fu la scintilla e nemmeno le incursioni dei fascisti riuscirono a spegnerla». 
Non se ne ricorda più nessuno: no a non molti anni fa i programmi scolastici si fermavano alla Grande Guerra. 
«Neanch’io, quando entrai per la prima volta nella vecchia sede del Piccolo di via Rovello, avevo 17 anni e non sapevo che era stato il quartier generale della Legione Ettore Muti, un luogo di torture e di morte. Peccato che non si possa presentare lì il nostro spettacolo. Sarebbe stato un omaggio, un tributo vero alla memoria di tutte quelle vittime. Quando l’ho saputo, per me è stata una scoperta illuminante: ho capito quanto vicina fosse a noi ancora la guerra. Oggi più che mai, con questi rigurgiti fascisti, trovo doveroso far conoscere a chi è nato e cresciuto in uno Stato di diritto quale è stato il prezzo pagato dalle generazioni precedenti per la libertà che abbiamo». 
Ascoltava i racconti dei suoi nonni?

«Certo! Uno era fascista e l’altro democristiano: e che litigate ogni Natale, a tavola! Il padre di mia madre, Giovanni, era il proprietario della macelleria Caiani di piazza Trento e Trieste, a Sesto San Giovanni. Aveva otto gli e parteggiava per Mussolini. Finché non si accorse che i fascisti facevano la cresta sulle tessere annonarie, li denunciò e fu lui invece a nire in carcere». 
E il nonno paterno? 
«Nonno Gianito. Una colonna di onestà. Giovanni Crippa aveva studiato dai Gesuiti, doveva farsi prete, ma poi ha sposato mia nonna Erminia ed è diventato sindaco di Besana Brianza, dove sono nata io. L’unico sindaco che non si è mai arricchito». 
Nessun segreto di famiglia, in casa Crippa? 
«La memoria non può essere d’ingombro. I segreti, i silenzi diventano muri che dividono, bloccano le persone. Anche se su fronti opposti, se si è onesti si può stabilire una relazione. Quello che più mi ha impressionato nelle testimonianze raccolte da Giuseppe Valota, glio di un deportato a Mauthausen, è la dirittura morale di quelle persone. Che, con il diploma di quinta elementare e una stanza da dividere in otto, non si sono piegati a prendere la tessera fascista. Quella spina dorsale lì oggi è andata perduta». 
Beh, non aiuterebbe a far carriera. 
«La cancellazione del passato, della memoria, mi volge pazza. La vita non è solo guadagno e felicità. Continuiamo a essere abitati dalle passioni e dalle pulsioni degli antichi greci, ma i sentimenti che ci invadono da dentro, come la gelosia e il rancore, non sappiamo più gestirli. I fallimenti, tanto, prima o poi arrivano». 
Perché ha privilegiato il teatro e si è concessa così poco a cinema e tv?

«Forse perché ho un viso poco cinematogra co e sono un animale teatrale. Quanto alla tivù, ne ho fatta un po’ all’inizio, con Salvatore Nocita, ma il teatro mi piaceva di più. La qualità, per me, è sempre stata prioritaria rispetto alla popolarità. Ma la qualità in questo Paese viene premiata poco». 
E per non uscire dal seminato si è sposata con un regista del calibro di Peter Stein.

«Un momento. Non siamo una ditta, la premiata Crippa e Stein. Siamo Peter e Maddalena e, in 28 anni di vita in comune, abbiamo lavorato insieme in appena sei opere. Quando l’ho conosciuto, davanti alla chiesa di Santa Maria della Catena, in Sicilia, ho pensato: “Questo è l’uomo mio”. Ma era come pensare di andare con il Papa. Lui era sposato e non mi filò». 
Finché...? 
«Finché non mi scritturò nel Tito Andronico, per il ruolo di Tamora. E s’innamorò di lei. Il vero successo per me non è solo di aver fatto tante cose con lui, ma di averne superate molte altre: tradimenti, allontanamenti. A 60 anni, posso dire di essere felice di aver resistito alla tentazione di lasciarlo».

Maturando tutto si aggiusta? 
«Arriva un momento in cui questo amore decantato e distillato matura e tiene molto caldo. Probabilmente il segreto è che siamo in due, ognuno con il suo spazio. Non abbiamo nemmeno provato a fonderci in una persona sola». 
Ma vi riunite sempre a San Pancrazio, il vostro buen retiro umbro: è il suo luogo della memoria?

«No. E non lo è nemmeno la mia casa d’infanzia a Montesiro, una vecchia landa. È ancora nostra, ma è disabitata e abbandonata. Il mio luogo della memoria è Milano, perché è cambiata meno rispetto al panorama di Besana Brianza. Però non ho perso i contatti con i vecchi amici, con le compagne delle medie. Si viveva allo stato brado, sempre in gruppo. C’erano le compagnie, a cavallo tra gli Anni 60 e 70. Noi ci riunivamo in un granaio, tra montagne di granoturco. Si discuteva. C’erano le prime battaglie tra ragazzi e ragazze.
Ci legammo a una colonia di sardi che lavoravano in una vetreria e che ci ospitarono tutti, un’estate, all’isola della Maddalena, a casa di zia Domenichedda. Che grande generosità». 
E il teatro? 
«Mio padre manteneva la famiglia come commerciante, ma faceva scuola di teatro alla mensa del salumi cio Vismara di Casatenovo. Mio fratello Giovanni e io cominciammo a recitare alla biblioteca di Besana. Teatro vero, non solo amatoriale. A 12 anni piansi, dopo la mia prima papera, ma decisi che avrei fatto l’attrice».

Con Strehler, naturalmente. 
«Risposi a un suo annuncio, quando cercava l’interprete di Anja per Il Giardino dei ciliegi. Eravamo in 400 candidate. Scelse Monica Guerritore, ma non mi dimenticò e, l’anno dopo, ricevetti una chiamata dal Piccolo: “Strehler la vuole per Il Campiello”. Piansi di gioia. Mi presentai al provino per il ruolo di Lucietta e la parte fu mia». 
Excelsior, 1988: che cosa le ricorda?

«Excelsior? 1988? Nulla. Ah, sì: il nudo! Caddi come un luccio della Brianza nella rete di un fotografo che mi era stato presentato da un amico di cui mi davo. Non ho problemi a farmi ritrarre nuda, ma voglio decidere io dove, come e quando pubblicare le immagini. L’autore mi fece firmare una liberatoria dicendo che erano per un giornale di alta fotografia e invece le vendette a una rivista erotica. Mi dispiacque soprattutto che l’anno dopo, quando interpretai La Lussuria nello Jedermann di Hugo von Hofmannsthal, al festival di Salisburgo diretto da Peter, la foto riapparve su tutti i giornali. Ma, nella sua signorilità, Peter non mi ha mai detto nulla».