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 2018  gennaio 25 Giovedì calendario

A tavola con il mondo ai fornelli con chi amo. Intervista a Anthony Bourdain

Metti due persone a tavola e a fine pasto si sarà compiuto qualcosa. Con la complicità del cibo avranno fatto un passo in più l’uno verso l’altro. Avranno provato a capirsi. Perché è a tavola che la gente si lascia andare davvero». Avvolto in una felpa nera, Anthony Bourdain, 61 anni, si presenta alle 11 in punto da Bouchon Bakery, la pasticceria francese al secondo piano di quel Time Warner Center affacciato su Columbus nel cuore di Manhattan. Ordina quiche e tè verde e sorride: «Sono pronto. Di cosa vogliamo parlare?». È dunque a tavola che Repubblica incontra lo chef newyorchese che ha abbandonato i fornelli dopo il successo del suo Kitchen Confidential, l’autobiografia tutto sesso, droga e cucina da cui ora – dopo il caso Weinstein di cui la sua compagna Asia Argento è una delle grandi accusatrici e gli scandali sessuali che hanno travolto anche il mondo della ristorazione – sente di dover prendere qualche distanza: «All’epoca raccontai semplicemente il mondo sregolato in cui vivevo: ora temo che quel libro sia diventato parte del problema. La Bibbia del testosterone». Oggi gastronomo giramondo reso celebre da programmi come “No Reservations” e “Parts Unknown”, Bourdain ha appena pubblicato il suo primo ricettario, I miei appetiti, edito in Italia da Feltrinelli.
Non c’è cucina del mondo di cui lei non abbia svelato i segreti. Ma lo “stare a tavola” è un rito che si assomiglia dappertutto?
«È il luogo migliore per comprendere chi è diverso da te. Solo a tavola puoi capire se hai qualcosa in comune col tuo nemico, se potrete superare le differenze. Il cibo è un linguaggio e consumarlo insieme è già metà del percorso. Forse non è il posto dove si firmano i trattati di pace: ma non è sbagliato dire che è a tavola che si comincia a costruire la pace».
Con i suoi programmi ha inventato un genere nuovo: la geopolitica della cucina.
«Magari avrei avuto più successo se avessi fatto programmi più concentrati sulle ricette. Ma l’approccio voyeuristico al cibo non m’interessa. Mettiamola così: geopolitica ed emozioni umane sono questioni complicate. I barbecue no. Raccontando come si arrabattano ai fornelli puoi far capire come vivono i rifugiati nei campi meglio che con mille discorsi. Il cibo è un modo per porre domande semplici anche quando affronti questioni complicate».
Succede solo in tv o anche nella vita reale?
«Io lo sperimento tutti i giorni. Qualche settimana fa ero in Virginia, terra di Dio, Trump e pistole. Le mie posizioni politiche sono note: ma anche lì, a tavola, quella gente si è sciolta. Ci siamo compresi al di là delle nostre posizioni. Mi hanno parlato delle loro vite, difficoltà, paure. E abbiamo trovato un punto in comune: sogniamo tutti un mondo migliore per i nostri figli. Se non ci fossimo seduti a tavola, davanti a una bottiglia di vino, non ce lo saremmo detto».
In una tavola quasi di strada, ad Hanoi, in quel Vietnam che fu la maledizione degli Usa, lei ha ospitato anche Barack Obama: come andò?
«Ci abbiamo lavorato un anno, in segreto. Quando ho saputo del viaggio in Asia ho pensato subito che era il Vietnam il posto giusto. C’era questo piccolo ristorante familiare di Hanoi specializzato in un solo piatto, il Bun Cha, una zuppa di maiale. Obama accettò e fu incredibile quanto fosse a suo agio su quelle sedioline di plastica a bere birra della bottiglia. Mi parlò da padre, mai da presidente. Mi disse che quegli odori – legno bruciato, carne arrosto e il terribile Durani, il frutto asiatico che puzza di gorgonzola – lo commuovevano, gli ricordavano la sua infanzia in Indonesia».
E dove andrebbe invece a cena con Donald Trump?
«Da nessuna parte. Non ho nessun desiderio di conoscerlo».
Ma come: ha appena detto che a tavola si appianano le differenze.
«A Trump non interessa il cibo: è un germofobo, ha paura di tutto e mangia McDonald’s per essere sicuro che nessuno lo avveleni. La tavola dev’essere un piacere: con lui non lo sarebbe».
Lei cucina ancora: ha preparato il pranzo di Thanksgiving per la sua compagna Asia Argento e altre due delle donne coraggiose che hanno denunciato Harvey Weinstein: l’attrice Rose McGowan e la modella Annabella Sciorra.
«Ormai cucino solo per chi amo. Mi piace cucinare italiano, ma divento nervoso se devo cucinare per italiani. Faccio piatti semplici: pasta col pomodoro fresco, risotti. Magari l’ossobuco».
Ne “I miei Appetiti” suggerisce solo ricette così. I piatti sempre più elaborati ci hanno fatto dimenticare come fare una frittata?
«Sono le ricette che preferisco, quelle che preparo per mia figlia. D’altronde tutti gli chef che conosco amano la semplicità. Detestano andare nei ristoranti di lusso perché passando la vita a pensare al cibo in modo ipercritico quando sono a tavola vogliono rilassarsi e gustarlo come facevano da bambini».
Anche lei?
«Certo. Sono tradizionalista e sentimentale. Se sono in Italia e ordino una cacio e pepe voglio quella di sempre, non una variazione strana. Poi, certo, nessuna ricetta è statica, storicamente ci si è sempre evoluti. Ma, sì amo i sapori autentici: quelli del passato».
Quali sono i suoi piatti preferiti?
«Adoro la cucina di strada di Singapore, frutto di tante contaminazioni. Mi piace la cucina cinese casalinga. E naturalmente quella italiana».
In Italia cosa mangia? E dove?
«A Roma c’è un piccolo ristorante proprio dietro Campo de’ Fiori dove fanno ancora le fettuccine a mano. È sempre uguale: i camerieri, il cuoco, i clienti. Poi c’è un posto a Torino specializzato in agnolotti: vecchia scuola, nessuna fretta, nessun impiattamento moderno. Per carità, non sono così arrogante da pensare che non si debba cambiare. So anche che il cibo che amo è povero: e se il posto che fa la trippa chiude perché i figli del cuoco studiano e non vogliono più fare i ristoratori devo essere contento per loro».
C’è qualcosa che detesta?
«Gli extra. Non mi prenda per uno snob ma quando vado in un ristorante e mi riconoscono arriva sempre qualcosa che non ho ordinato. E spesso è troppo grosso, troppo carico, troppo pretenzioso. Quando il cibo è buono dovrebbe parlare solo quello, non l’ego dello chef».
Il mestiere di chef è cambiato: ora anche lei è un personaggio.
«Sì, un tempo non avevano volto, erano solo il vertice della catena. Social e reality hanno cambiato tutto. Mi colpisce che oggi per molti giovani andare in un buon ristorante è una forma di divertimento. Ai miei tempi preferivamo concerti, cinema, droghe. Loro risparmiano per andare in posti che non potrebbero permettersi: è uno status. Ma non sono sicuro che si godano il cibo che mangiano. Poi ci sono anche aspetti positivi».
Prego.
«La gente è più consapevole di quel che consuma, più responsabile. Ha più scelta e di conseguenza aspettative più alte. Capisce anche meglio quello che mangia. Se penso agli anni 80: quando iniziai a lavorare se servivo una spigola con la testa la gente andava via inorridita».
La regola fondamentale da seguire in ogni ristorante?
«Assaggiare il piatto del giorno. È quello di cui lo chef va più fiero. E naturalmente non ordinare mai insalata in un posto dove fanno bistecche».
A proposito: è celebre la sua polemica coi vegani.
«Ormai sono in pace con loro: m’intristisce che non scopriranno la gioia di un’anatra arrosto o di una buona fiorentina, ma peggio per loro».
Dopo lo scandalo Weinstein, scoperchiato anche dalla sua compagna Asia Argento, le denunce hanno messo alla gogna celebri ristoratori americani come Mario Batali. Lo sapeva?
«Sapevo che in cucina vige un sistema violento dove gli chef hanno da sempre abusato del loro potere coi sottoposti, di solito poveri cristi clandestini. Ma le cose che ho letto ora mi hanno scioccato. Certo, la cucina è come la caserma: omocentrica e aggressiva. Le molestie devono essere state il passo successivo. Ne sono sconvolto: e ne sento anche una certa responsabilità».
Responsabilità?
«Quando scrissi Kitchen Confidential, appunto, descrissi il mondo sregolato in cui vivevo. Ebbene, oggi temo che quel libro sia parte del problema. Mio malgrado è diventato la bibbia del testosterone e del cattivo comportamento dei cuochi. Chi lo ha letto ha detto, beh, posso comportarmi così anch’io, posso fare peggio».
Lo rinnega?
«No, ma quando nacque mia figlia, e io avevo già 50 anni, mi chiesi che tipo di uomo volevo essere per lei. E su quel tipo di uomo ho lavorato molto».
Lei oggi denuncia certi comportamenti.
«Ho alzato la voce per difendere la persona che amo. Quello che ho detto era personale, emotivo. Ho parlato col cuore».
Il sistema cambierà?
«Sì, ma per necessità, non per illuminazione. Certi comportamenti stanno distruggendo reputazione e affari: costano migliaia di dollari dunque meglio evitarli. Il cambiamento culturale vero arriverà forse con i nostri figli. Per gli adulti è tardi».
Proviamo allora a chiudere parlando di un cambiamento si spera più facile: che cosa direbbe a un giovane che vuol diventare chef?
«Che il sistema è malato e sta a loro cambiarlo. Sta a loro creare un mondo nuovo. Mi ripeto? È proprio dalla tavola che un altro mondo è possibile».