Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  gennaio 25 Giovedì calendario

Le Guin, l’altra metà della fantascienza

Oggi che in così tanti la piangono (i grandi della letteratura fantastica, da Margaret Atwood a Stephen King e Neil Gaiman, e i milioni di lettori che affidano a un tweet il cordoglio), per raccontare la lunga, bellissima vita di Ursula K. Le Guin, scomparsa lunedì a 88 anni, è bene cominciare dalla fine. Da quel discorso tenuto nel 2014 per l’assegnazione del National Book Award, per esempio: «Abbiamo bisogno di scrittori che si ricordino la libertà. Poeti, visionari, realisti di una realtà più grande. Abbiamo bisogno di scrittori che conoscano la differenza tra la produzione di una merce e la pratica dell’arte. Io vedo il reparto vendita prendere il controllo su quello editoriale.
Vedo i miei stessi editori, stupidamente nel panico generato dall’ignoranza e dall’ingordigia, chiedere alle biblioteche pubbliche sei o sette volte il prezzo praticato ai clienti normali per un ebook. E vedo molti di noi, coloro che producono, che scrivono i libri e fanno i libri, accettare tutto questo. Lasciando che i profittatori commerciali ci vendano come deodoranti, e ci dicano cosa pubblicare e cosa scrivere». Parole che ci si può permettere di pronunciare non solo in tarda età e dopo aver vinto cinque premi Hugo e sei premi Nebula (i massimi riconoscimenti per la letteratura fantastica), dopo un World Fantasy Award alla carriera, dopo essere stata nominata Grand Master della fantascienza. Ma dopo essere stata, soprattutto, una persona libera: nella vita di Le Guin spiccano due genitori importanti – l’antropologo Alfred Kroeber, sui cui testi intere generazioni hanno appreso il concetto stesso di cultura, e la scrittrice Theodora Kracaw – e una vocazione alla scrittura precocissima (aveva 11 anni quando spedì un racconto alla rivista Astounding, che lo rifiutò), preludio a una straordinaria produzione che attraversa ogni sentiero del fantastico e di cui la scrittrice prenderà atto tardi: «Mi ci vollero degli anni per rendermi conto d’aver scelto di lavorare in generi disprezzati e marginali come fantascienza, fantasy e narrativa per adolescenti, esattamente perché essi erano esclusi dal controllo della critica, dell’accademia, della tradizione letteraria, e consentivano all’artista di essere libero».
Di fatto, Le Guin riesce a reinventare tutto: sia nel ciclo fantasy di Earthsea che in quello fantascientifico di Hain, sia nei singoli romanzi ( La mano sinistra delle tenebre, I reietti dell’altro pianeta, La falce dei cieli, Il mondo della foresta, solo per citarne quattro da uno sterminato elenco), ribalta, per esempio, lo stesso concetto di eroe, che non può salvare alcun mondo da solo, e porta le questioni della pace, dell’utopia, delle donne dentro il fantastico. È stata, Ursula Le Guin, un’icona femminista: anche se, ricordava nelle interviste, «il termine femminismo viene usato in così tante accezioni, molte ostili, ed è usato con tanta incuria, spesso tanta ignoranza, che non ha senso dire di qualcuno che sia femminista, oppure no. L’unico suffisso in “ista” che accetto come etichetta è quello della parola “taoista”». Anche il genere letterario, in sé, poteva essere una gabbia: usa questa parola Margaret Atwood, grande riscoperta recente dopo la serie tv tratta da Il racconto dell’ancella, sottolineando come Le Guin abbia attraversato in realtà ogni filone, e che sono sottili le membrane che li separano. E se persino il severissimo Harold Bloom ebbe per lei parole di lode per aver elevato il fantasy alla “grande letteratura”, Le Guin, in un’intervista al Guardian di due anni fa, ricordava che «il realismo è un genere ricchissimo, che continua a darci grandi romanzi: ma facendone il sinonimo di qualità, limitando a esso la letteratura, stiamo lasciando troppi scrittori importanti fuori da ogni seria considerazione». Ben lo aveva compreso Roberto Bolaño, che nel suo Lo spirito della fantascienza, appena pubblicato da Adelphi, le indirizza una delle sue lettere. Ben lo sa l’esercito di lettrici e lettori che si appassiona per i suoi draghi e i suoi pianeti.
Meno, forse, l’editoria italiana: La mano sinistra delle tenebre è fuori catalogo, e una piccola consolazione si avrà il 14 febbraio con l’uscita presso un piccolo editore, Nero, dell’antologia Le visionarie, curata da Ann e Jeff VanderMeer (per l’Italia, da Claudia Durastanti e Veronica Raimo), che ripropone uno dei suoi testi. Ben lo sanno gli scrittori che in queste ore rileggono le ultime parole di quel discorso di quattro anni fa: «Ho avuto una lunga carriera come scrittrice, una buona carriera e con una buona compagnia. Ora, alla fine di questa carriera, non voglio vedere la letteratura americana svenduta.
Noi che viviamo di scrittura e di editoria vogliamo e dobbiamo chiedere la nostra parte della torta. Ma il nome di questo riconoscimento non è profitto. È libertà».