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 2018  gennaio 25 Giovedì calendario

Il guastatore e i fantasmi del ’900

Angela Merkel si mette subito contro Donald Trump, il “guastatore supremo”, al suo arrivo al World Economic Forum di Davos. La cancelliera ammonisce il presidente americano a non ignorare «le lezioni della storia». La platea di Davos, nell’attesa di divertirsi con lo spettacolo del grande showman americano, tifa per la voce della ragione, che identifica con Merkel.
Di quale lezione storica stiamo parlando? Merkel parte dalla Grande Guerra del 1914-18 (siamo nel centenario della conclusione di quella carneficina) ma la lezione si estende agli eventi successivi. Le inique sanzioni che esasperarono il revanscismo tedesco. Il disordine economico e il caos politico della Repubblica di Weimar. Il crac del 1929 a Wall Street. La Grande Depressione. L’avanzata dei totalitarismi, neri o rossi. In quella tragedia ebbe una parte il protezionismo: molti Paesi cercarono di scaricare i danni della crisi sui vicini, alzando barriere e dazi. Il commercio mondiale crollò, accentuando la disoccupazione e la miseria di massa. Keynes fu uno dei pochi a vedere con lucidità i danni di quelle politiche economiche. Il New Deal di Roosevelt fu una delle risposte ispirate da Keynes. In quel caso l’America rappresentava l’alternativa positiva ai dirigismi dittatoriali di Hitler, Mussolini, Stalin. Oggi s’invertono le parti? Trump è arrivato a Davos dopo aver introdotto dei superdazi contro i pannelli solari cinesi e gli elettrodomestici sudcoreani. È solo un inizio: l’anno due della presidenza Trump sarà all’insegna del protezionismo.
America first, è una promessa elettorale che lui intende mantenere.
La saggezza convenzionale – di cui Merkel si fa interprete – dice che Trump provocherà le rappresaglie altrui, ciascuno chiudendosi in difesa del proprio mercato, e alla fine saremo tutti più poveri. Attenzione, però, alle analogie semplicistiche. «Più che ripetersi – scriveva Mark Twain – la Storia fa la rima con se stessa».
Anzitutto la credibilità di Merkel è limitata. Lei governa una nazione mercantilista, che accumula giganteschi attivi commerciali, con un effetto depressivo sui Paesi vicini. Il comportamento tedesco, unito alla religione dell’austerity, contribuisce alla debolissima crescita in Italia, Francia, Spagna.
Il protezionismo di Trump – che ha dei precedenti: Reagan varò misure contro le auto giapponesi – viene da una nazione che è tra le più aperte alle importazioni dal resto del mondo, e accumula disavanzi crescenti con Germania, Cina, Giappone, Messico. Non sono mercati altrettanto aperti, né quello cinese né quello indiano. Fa sorridere l’applauso di Davos a Narendra Modi: il premier indiano è più nazionalista di Trump, l’India pratica un protezionismo estremo, e lui non è il fautore di una “società aperta” bensì cavalca un fondamentalismo induista speculare a quello islamico. In quanto alla superpotenza cinese, un anno fa Xi Jinping venne a Davos a presentarsi come l’anti- Trump, il nuovo paladino del globalismo, e fu venerato come un profeta. Ma la Cina è la patria del protezionismo da decenni. Su molti prodotti occidentali applica superdazi che sono il quintuplo di quelli americani. Costringe le aziende straniere a investire sul suo territorio imponendo dei soci locali che rubano segreti industriali e tecnologici. Questa è la globalizzazione che piace a Xi Jinping. Sono regole asimmetriche, che ebbero una giustificazione quando alla fine del millennio venne negoziato l’ingresso di Pechino nell’organizzazione mondiale del commercio. Quella Cina poverissima aveva bisogno di agevolazioni per integrarsi. In vent’anni ha fatto progressi prodigiosi, alcuni settori della sua economia sono a livelli giapponesi. Le regole sono anacronistiche e ci danneggiano. Qualche volta può anche succedere che Trump dica una verità scomoda.
L’Uomo di Davos (e qualche Donna di Davos, ma sono minoranza) ovviamente sta con Xi e con Merkel, contro Trump. Questa definizione, quasi una categoria antropologica, fu coniata sul finire del millennio dal giornalista americano Thomas Friedman. Nel best- seller Lexus e l’ulivo, Friedman fu uno dei primi cantori della globalizzazione. Ma il bilancio dall’inizio del millennio, in Occidente, deve associare per forza la globalizzazione con l’impoverimento della classe operaia e di ampi strati del ceto medio. Se c’è un colpevole dietro l’ondata dei nazionalpopulismi, è l’Uomo di Davos. Due giorni fa Oxfam ha denunciato che l’1% della popolazione mondiale l’anno scorso si è appropriato dell’ 82% dei frutti della crescita. Le oligarchie finanziarie, i chief executive, hanno fatto secessione dalle loro società nazionali, l’elusione fiscale ne è un segnale evidente: contribuire ai costi dei servizi pubblici non rientra nella loro etica. Gli esemplari più “progressisti” dell’Uomo di Davos – i Bill Gates, i Mark Zuckerberg – si rifanno con la filantropia, come le aristocrazie feudali praticavano la carità verso i poveri.
Il “guastatore capo” non incarna un’alternativa seria, purtroppo. La sua squadra di governo infarcita di ex- banchieri della Goldman Sachs, la sua riforma fiscale tutta in favore delle imprese, non fanno di lui l’alfiere credibile di un modello economico diverso. Rinunciando a una leadership globale, non può essere lui l’ispirazione per riscrivere le regole della globalizzazione. Ma preferirgli l’ideologia di Davos significa tenersi un sistema ingiusto e insostenibile.