la Repubblica, 25 gennaio 2018
Falcone, i resti della Croma di scorta esposti per la prima volta a Roma
Roma 100.287: sabato pomeriggio del 23 maggio 1992, sull’autostrada che dall’aeroporto conduce a Palermo, il tritolo dei boia di Cosa nostra inchiodò a quel numero il contachilometri della Quarto Savona quindici. Non un’auto qualsiasi, ma la prima del convoglio di tre blindate al centro del quale c’era quella del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dell’autista superstite Giuseppe Costanza.
L’esplosione che sventrò l’autostrada, sollevò una colonna d’asfalto sulla quale si schiantò l’auto del giudice, e spazzò via la prima Croma, riducendola a un cubo di lamiere. Dentro a quell’ammasso di ferraglie c’erano le vite spezzate di tre uomini non ancora trentenni: Antonio Montinaro, il capo della scorta, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. Lasciarono due vedove, una fidanzata davanti all’altare e tre orfani: Emanuele, 4 mesi, il figlio di Vito. Gaetano 4 anni e Giovanni, 1 anno e mezzo, i bambini di Antonio.
Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, i sopravvissuti dell’ultima blindata, non si resero neppure conto che quella dei colleghi lì davanti era volata via, atterrando tra gli ulivi dalla parte opposta. I soccorritori ci misero un po’ a capirlo. Antonio, pugliese come Rocco, lo riconobbero da un brandello dell’abito buono, il completo verde che indossava quando scortava Falcone.
Nel 2011 quel rottame- reperto custodito nell’autoparco della polizia di Messina ha ripreso idealmente la marcia. A concepire l’idea fu Tina Montinaro, la moglie «non la vedova» di Antonio: nel mesto alternarsi delle ricorrenze, suo marito e i colleghi della polizia, erano poco più che un necessario corollario al ricordo del giudice e della moglie. Loro erano solo e soltanto e un po’ sbrigativamente «la scorta».
Antonio Manganelli, allora capo della polizia, disincagliò l’auto dalle secche della burocrazia. Quel che restava della blindata, fu custodito in una teca di vetro all’interno della scuola degli agenti di Peschiera del Garda e divenne patrimonio della associazione QS15, pronta a portarla in giro per l’Italia, ovunque la sensibilità di amministrazioni, associazioni e scuole lo richiedesse.
Sfidando le paure che la testimonianza dell’orrore si trasformasse in esaltazione della potenza di fuoco della mafia, quell’auto è diventata il simbolo di una riscossa che dà il senso all’impegno di Tina Montinaro e dei tanti colleghi di Antonio, Vito e Rocco che la lotteria dei turni risparmiò dall’appuntamento con la morte: «Non li hanno fermati, loro ci sono ancora». L’auto ha girato l’Italia e l’anno scorso è tornata a Palermo. Ed ha sostato lì dove tutto è cominciato: il giardino, ora giardino di memoria per le vittime del dovere. Non eroi e non superuomini ma gente che fece fino in fondo il proprio dovere. Che non si tirò indietro di fronte al pericolo mentre altri per paura, connivenza lasciarono che il massacro potesse compiersi.
Ora, per la prima volta, in una rapida triangolazione tra associazione QS15, Regione Lazio e Polizia, la teca è a Roma, inaugurata dal ministro Andrea Orlando, che l’ha definita una «reliquia laica» e dal presidente della Regione Nicola Zingaretti.
Ci resterà per una settimana alla Galleria Alberto Sordi, al centro di una capitale che fatica a vedere la mafia in casa e a due passi da quei palazzi di una politica che troppo spesso si è girata dall’altra parte.