Corriere della Sera, 25 gennaio 2018
Luca Guadagnino l’americano
Roma «È tutto strano e bello». Il giorno dopo le quattro nomination agli Oscar per Chiamami col tuo nome, Luca Guadagnino, regista atipico, cosmopolita e solitario, amico di Tilda Swinton pallida e irregolare come lui, 46 anni e dalle mille radici e geografie, affida lo stupore ai suoi occhi roteanti e un po’ incavati. «Non sono ipocrita, pensavo di aver fatto un buon film ma questa risonanza... Sono nel mezzo di altro (dopo il remake di Suspiria, Buried Rites con Jennifer Lawrence su una donna condannata a morte in Islanda), e metto le cose in prospettiva».
Guadagnino l’americano, ha girato ancora una volta in inglese, con attori Usa, Paese che dopo il Sundance Festival ha avuto la prima uscita, e ora lo candida al premio più ambito per i film non stranieri ma dove sono in corsa gli americani (non accadeva dal ‘99, con Benigni). Il cinema? «È una grande Nouvelle Vague, più che la nazionalità contano le idee. Mi succedono cose uniche, giovani e anziani che non so come hanno il mio indirizzo, mi scrivono che li ho trasformati, come se avessero avuto una soluzione ai loro nodi emotivi».
Ha la stesso senso di meraviglia del suo attore candidato alla statuetta, Timothée Chalamet, che in un’estate dell’83 scopre il desiderio, inesorabile quanto inatteso; scopre l’amore per un giovane americano (Armie Hammer che si presenta in tuta bianconera), ospitato da suo padre, prof universitario, in una villa nella bassa cremasca. «Non è una storia gay». Questo film di cui forse si farà un sequel («alla maniera di Truffaut con Antoine Doinel, ma lo dico umilmente»), grida la libertà di amarsi come si vuole, svela come paura e desiderio siano a un tiro di link. Ha avuto «un percorso lungo ma pacato, mi chiesero una consulenza visto che il romanzo di Aciman da cui muoviamo si svolge in Italia, poi sono stato più coinvolto fino a coproduttore, per il regista mi ero rivolto invano a Muccino e a Ivory. Sembrava l’occasione giusta di girarlo io, con un budget minimale. Ha collezionato 50 premi».
Esce oggi da noi, al contrario del passato, quando i suoi film in Italia erano accolti col sopracciglio alzato da una parte dell’ambiente: troppo estetizzanti, troppi borghesi e pochi precari, troppa forma a soffocare il contenuto... E lui, colto, sensibile, risponde di cercare «l’armonia della dissonanza». Non vuole che si dica che l’Italia scopre un regista italiano dopo l’America; non rivanga le polemiche di quando, a Venezia, dopo A Bigger Splash, diceva che il suo Paese non lo capisce. «Non ragiono in termini di rivincita, ho tanti amici nell’ambiente in Italia, il ministero mi ha sostenuto, sono stato nove volte alla Biennale. Penso a una recensione sul Manifesto : il cinema italiano è fatto da piccolo borghesi che quando assurgono alla possibilità di farlo se la prendono coi piccolo borghesi. È una dimensione intellettuale che non mi appartiene. Non vivo con un senso di rivalsa. Ho fatto questo film per condividere qualcosa, nel nome di un cinema che amo». È un piccolo omaggio a Bertolucci? «Spero che sia un grande omaggio». Ha mai pensato all’Oscar? «Sì, a 20 anni. Ero con un’amica davanti al Vaticano e le dico: non diventerò mai Papa, ma forse un giorno sarò candidato a Hollywood».
Luca delle cinque terre: Palermo, Addis Abeba, Roma, Los Angeles, dal 2011 vive tra Milano e Crema.
«Sono nato in Sicilia nel 1971, avevo un mese quando ci trasferimmo in Etiopia (mio padre insegnava italiano e storia, mamma algerina): è la mia scena primaria, il luogo in cui ho vissuto ciò che ha forgiato il mio inconscio, la vastità del cielo, la molteplicità di etnie… A Palermo tornai da teenager, ho scoperto la sensualità e ciò che appartiene a quell’età, noia e solitudine, la capacità di stare con te stesso e riflettere sulle cose. Roma è il nuovo cinema italiano, Bertolucci e Laura Betti a cui proposi, da incosciente, un mio scritto da Schnitzler, pensando potesse interpretarlo. Mi permise di essere alla pari, diventammo amici, andavo nella sua casa e come una mosca invisibile (posizione invidiabile) ascoltavo l’intellighenzia. Io ero l’amichetto di Laura che cucinava bene. L’America... Come disse Bertolucci con intelligenza psicoanalitica quando ritirò l’Oscar per L’ultimo imperatore, New York è la Grande Mela, Los Angeles la Grande Mammella, il nutrimento che può anche essere crudele. Il pubblico non ha mai torto». Ma in Italia c’è chi lo confonde: chiamatelo col suo nome.