Corriere della Sera, 25 gennaio 2018
C’è anche la stupidità del male
«Ero in quinta ginnasiale. Avevo come compagna di banco una brava figliola. Questa ragazza un giorno ha detto qualcosa che mi sembrava... Allora le ho detto: “Ma guarda che anch’io sono ebrea”. E lei mi dice: “Non è vero”. “Se te lo dico io!”. “Non è vero, perché gli ebrei hanno sei dita.” Adesso fa ridere, ma è così. La mia amica Carla mi ha detto che una donna che conosceva, a Torino, era terrorizzata durante la gravidanza perché temeva che il bambino nascesse con sei dita».
Il racconto di Anna Colombo, piemontese, docente di letteratura rumena, morta anni fa a Gerusalemme e autrice del libro Gli ebrei hanno sei dita (Feltrinelli, 2005), spiega più di mille volumi quanto sottile sia il confine fra il ridicolo e l’orrore. Nulla quanto il razzismo può accecare le intelligenze. Nulla.
Dicono tutto poche righe scritte di suo pugno nel libro del 1941 Sintesi di dottrina della razza da Julius Evola, che il Giorgio Almirante definiva «il nostro Marcuse» ed è ancora oggi uno dei punti di riferimento della destra: «Una donna, i cui rapporti sessuali con un uomo di colore sono cessati da anni, può dare alla luce un figlio di colore nella sua unione con un uomo, come lei, di razza bianca: qui una idea confittasi in condizioni speciali nella subcoscienza della madre in forma di un “complesso”, anche dopo anni ha agito formativamente sulla nascita». Gravidanze lunghe anni e anni…
C’è di tutto, nello stupidario del razzismo. C’è la tesi omofoba di San Bernardino: «Il corpo del sodomitto non è altro che puza» (di zolfo). E l’africano del popolo khoisan che Cesare Lombroso chiama «ottentotto» spiegando che «si può dire l’ornitorinco dell’umanità». E il meticcio che il giurista Médéric Louis Élie Moreau de Saint-Méry cataloga a seconda delle sue 128 gradazioni di sangue bianco o nero. Non manca neppure il marchio dell’«odore più fetido» assegnato nel 1915 dalla Société de Médecine di Parigi ai tedeschi («odore acre e tenace di cavolo e di sudore», precisò lo scienziato Edgar Bérillon) davanti all’«odore acido» degli inglesi, «rancido» dei neri e «malato» degli orientali.
Le vittime predilette dei pregiudizi più stupidi, però, sono stati gli ebrei. «L’ebreo manca di umorismo, ed è anzi egli stesso, dopo la sessualità, l’oggetto preferito delle barzellette», discetta nel 1903 in Sesso e carattere il filosofo Otto Weininger, ignaro di come avrebbero riso di lui Chico, Groucho, Harpo, Gummo e Zeppo Marx, Woody Allen, Walter Matthau, Tony Curtis e tanti altri geni dell’umorismo a partire da Charlie Chaplin, additato come ebreo nel libretto nazista Juden sehen dich an («Gli ebrei ti guardano»).
Lascia basiti rileggere L’ebraismo nella musica del grande compositore tedesco Richard Wagner: «È naturale che la congenita aridità dell’indole ebraica che ci è tanto antipatica trovi la sua massima espressione nel canto, che è la più vivace, la più autentica manifestazione del sentimento individuale». Certo, spiega Paolo Isotta, il compositore ben sapeva quanto grandi fossero Moses Mendelssohn o Jakob «Giacomo» Meyerbeer, tedeschi come lui, ma ebrei. Sapeva di scrivere una assurdità. Ma convinto com’era di una congiura giudaica nei suoi confronti, come poteva rinunciare a spargere veleni? E parliamo di musica classica. Perché l’idea che il canto sia «negato agli ebrei dalla natura stessa» cozzerebbe oggi con le storie di musicisti come Bob Dylan, Barbra Streisand, Leonard Cohen, Paul Simon e Art Garfunkel, Lou Reed, Woody Guthrie, Carole King, Neil Diamond…
Quanto agli attori, lo stesso Wagner non aveva meno pregiudizi. Lo scrisse sempre in L’ebraismo nella musica : «Ci è impossibile immaginare che un personaggio dell’antichità o dei tempi moderni, eroe o amoroso, sia rappresentato da un ebreo senza sentirci involontariamente colpiti da quanto vi è di sconveniente, anzi, di ridicolo in una rappresentazione del genere». Aggiunse: «La cosa che più ci ripugna è il particolare accento che caratterizza il parlare degli ebrei». E ancora: «Ascoltando l’ebreo che parla, noi siamo nostro malgrado urtati dal fatto di trovare il suo discorso privo di ogni espressione veramente umana». Certo, non aveva avuto modo di veder recitare Sarah Bernhardt e Lauren Bacall, Dustin Hoffman e Paul Newman, Kirk Douglas e Cary Grant, Shelley Winters e Scarlett Johansson e tanti altri... Ma come poteva, un genio qual era lui, uscirsene con scempiaggini così?
Sarebbe impossibile chiudere questa carrellata, però, senza ricordare la testimonianza di Inge Deutschkron, che dopo essere scampata ai lager nazisti sarebbe diventata una scrittrice e una testimone dell’Olocausto. E che un giorno di settembre del 1938 andò a farsi la carta d’identità. «Come ogni ragazzina di sedici anni, ero anch’io vanitosa. Quando il fotografo mi fece cenno di aggiustarmi i capelli dietro l’orecchio sinistro, mi sentii completamente turbata sull’orlo delle lacrime». Sapeva che, come ebrea, le avrebbero stampato una grande «J» (l’iniziale di Jude, «ebreo») gialla sulla copertina e una sulla prima facciata interna del documento «sicché non era possibile alcun dubbio sull’origine razziale del titolare». Ma fu quella raccomandazione sui capelli a ferirla di più.
«L’avvertenza del fotografo era di carattere tecnico, non esprimeva scherno, era un cenno professionale, nulla più. Tuttavia la sentii come un’umiliazione, quasi fosse un colpo di frusta». Dalla forma dell’orecchio sinistro infatti «sarebbe stata individuata l’appartenenza razziale. Era questa una scoperta degli scienziati della razza nazionalsocialisti. L’orecchio sinistro di un ebreo tradiva secondo loro l’origine semitica. Per questa ragione le fotografie dei passaporti degli ebrei dovevano essere prese in modo da rendere chiaramente visibile la forma dell’orecchio sinistro».
La ragazzina uscì dal negozio scossa: «In quei giorni cercai spesso a Berlino di constatare cosa distinguesse l’orecchio sinistro dei miei concittadini dal mio, quando passavo loro vicino nell’autobus o nella sotterranea. Ma non riuscii a scoprire nulla. Il mio orecchio, sottoposto centinaia di volte a esame allo specchio, era proprio uguale a quello degli ariani di Berlino».
Per anni, facendo conferenze in giro per il mondo, Inge Deutschkron ha raccontato quel momento della sua vita tra i sorrisi increduli di lettori, professori, studenti… Sì, pare impossibile. Oggi. Ma è successo. E chissà se chi avviò con burocratica solerzia alle camere a gas uomini, donne e bambini diede un’occhiata al loro orecchio sinistro...