La Stampa, 25 gennaio 2018
In tribunale il duello tra toghe. Nomine contestate, processo dopo la querela. Oggi interrogatori incrociati
Quella che andrà in scena questa mattina davanti al tribunale di Roma non sarà una normale udienza di un normale processo per diffamazione. Perché l’oggetto del procedimento 58411/15 è l’annosa questione della politicizzazione della magistratura. Perché sia l’imputato che la parte offesa sono due alti magistrati (uno in carriera, l’altro in pensione). E perché oggi entrambi saranno interrogati in udienza pubblica.
I protagonisti del duello rusticano sono Bruno Tinti, già procuratore di Ivrea e procuratore aggiunto di Torino (sua l’inchiesta Telekom Serbia) poi autore di libri di successo come «Toghe rotte», e Arturo Soprano, 40 anni di carriera dalla pretura di Gavirate al Palazzo di giustizia di Milano. I fatti risalgono a tre anni fa, quando il Csm deve nominare il presidente della Corte d’appello di Torino. Soprano, allora presidente di sezione di Corte d’appello a Milano, si candida. A contendergli il posto è Piercamillo Davigo, ex pm di Mani Pulite, allora giudice di Cassazione. Il Csm sceglie Soprano a larghissima maggioranza. Tinti scrive sul «Fatto» un articolo che contesta la decisione.
Soprano non ci sta. Si rivolge all’avvocato Jacopo Pensa e sporge un’articolata querela, oltre 60 pagine allegati compresi. Lamenta che l’articolo di Tinti, «da me mai conosciuto e mai incontrato», sia «altamente diffamatorio, gettando ampio discredito su di me, sia come persona sia come magistrato nonché sferrando un duro attacco al mio onore e al mio decoro professionale (...) con il chiaro scopo di screditarmi e svalutarmi». Trattasi, sostiene Soprano, di «un attacco gratuito alla sfera morale della mia persona» a colpi di «accostamenti allusivi e denigrazioni intollerabili».
Raro imbattersi in parole così pesanti tra colleghi magistrati. Dunque, che cosa aveva scritto Tinti? Paragonava la promozione di Soprano ad altre contestate nomine del Csm. Quella di Antonino Meli, «giudice senza infamia e senza lode», al posto di Giovanni Falcone (1988) e quella di Alfonso Marra, «altro magistrato di ordinaria caratura» poi dimissionario per lo scandalo P3, al posto di Renato Rodolf (2010).
Tinti elogiava il curriculum e le qualità di Davigo al cospetto della «vita professionale che più ordinaria non si può» di Soprano: «Pretore per un sacco di anni (...) e alla fine presidente di sezione (ce ne sono una ventina)», con un solo processo importante gestito, in realtà nemmeno così importante («processi come questo andavano un tanto al mazzo, ce n’erano centinaia»). Eppure, sosteneva Tinti, il Csm ha preferito Soprano a Davigo: «motivazioni risibili» e «sconcertanti considerazioni» professionali celano, a prezzo di «vergogna o improntitudine», una «verità politica»: Davigo aveva contro tutte le correnti delle toghe. Non solo quella di Soprano, la centrista Unicost, ma anche quella di sinistra Area (che da sempre contesta) e quella di destra Magistratura Indipendente, cui lo stesso Davigo apparteneva prima di promuovere una polemica scissione. Quanto ai membri laici del Csm, «sono due politici: volete che abbiano simpatia per un pm di Mani Pulite?».
Legittimo esercizio del diritto di critica? No, secondo Soprano che rivendica le sue performance di produttività, lamenta di essere stato «descritto come un magistrato senza valore né meriti, di assoluta mediocrità e inettitudine» e ritiene «gratuita offesa» l’accostamento a Meli e Marra, uno «senza infamia e senza lode» l’altro coinvolto nell’inchiesta P3: «Dunque io sarei nominabile solo a seguito di una decisione delittuosa, con atto vergognoso e sfrontato. Peggiore aggressione, peggiore attacco, peggiore lesione della mia reputazione e del mio onore di uomo e magistrato non è immaginabile».
Argomenti che oggi Soprano ripeterà in tribunale. Poi toccherà a Tinti difendersi. Con una memoria altrettanto corposa, firmata dal suo difensore Gian Maria Nicastro, e poi nell’interrogatorio in cui sosterrà che Soprano non deve offendersi per essere stato definito «magistrato ordinario» e non «eccezionale» come Davigo, perché il suo obiettivo polemico era «la degenerazione correntizia del Csm», in mano «a gruppi di potere» che attuano «una gestione clientelare dei propri adepti» spartendosi gli incarichi. Tesi che da anni sostiene in articoli, libri e dibattiti, citando documenti, mail e interventi di altri magistrati e perfino un discorso di Giorgio Napolitano, allora presidente della Repubblica, proprio davanti al Csm.
Mai una questione interna alla politica e alla magistratura era diventata scontro processuale, in modo plateale.