Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  gennaio 25 Giovedì calendario

Quelle autostrade della jihad che portano al cuore dell’Africa

C’è un’arteria che unisce due sponde dell’Africa e che porta dritta al suo cuore.
Un’arteria battuta da colonne di pick-up, ognuna delle quali racconta una storia, sempre più spesso di tragedie e crimine.
Un’arteria che prende prima il nome di «Highway 10», l’autostrada del decimo parallelo, dall’Atlantico al Niger, prima di svoltare a Nord. Quella rotta a gomito che attraversa le distese rossastre del Sahel e le sabbie sahariane, prima di sfociare nel Mediterraneo, è destinata a diventare la giugulare del terrore, oltre che dell’orrore. La terra promessa della «jihadiaspora» (la diaspora della jihad), che dopo la caduta del Califfato tra Iraq e Siria ha visto gli adepti di Abu Bakr al-Baghdadi fuggire su tre direttrici: Europa, Asia e Africa. «Quest’ultima è la più pericolosa», spiega Arije Antinori esperto Ue di terrorismo e coordinatore Cri.Me Lab «Sapienza» Università di Roma. Perché dalle zone franche nel deserto libico sino al serbatoio saheliano, le attività terroristiche si stanno intrecciando a quelle dei traffici illeciti, con l’obiettivo di creare holding criminali.
La genesi di «Highway 10» è il Mali, l’anello debole della catena saheliana. Un Paese fuori controllo dove le contrapposizioni interne rendono vano ogni tentativo di recupero. Dopo la rivoluzione libica del 2011 vi sono confluiti ingenti quantitativi di armi agevolando la creazione di un movimento islamista ispirato al salafismo del Qatar che portò all’insurrezione dell’Azawad. «Se non si sollevano le sorti del Mali non si sollevano quelle del Sahel», ripete come un mantra Mohamed Ould Abdel Aziz, il presidente della Mauritania, preoccupato da rischi di contagio. Come accaduto in Burkina Faso, preso di mira dai terroristi negli attentati di Ouagadogou, in cui è morto anche un italiano, Misha Santomenna di appena nove anni. Il casello di entrata dell’Autostrada 10 è la Guinea Bissau, divenuta un hub della cocaina per l’Africa. Lo stupefacente giunto da Colombia, Perù e Bolivia da lì entra e attraversa Mali, Burkina Faso, Niger e taglia su per la Libia. «Dal 2014 al 2016, il Paese maghrebino è il primo hotspot di connessione euro-mediterraneo per la coca», spiega Antinori. In tale mappatura si innesta il traffico di esseri umani, un giro d’affari nella regione stimato a sei miliardi di dollari l’anno, per cui il Niger è divenuto l’hub per eccellenza, un Paese «facile» senza architettura di Stato.
Queste attività hanno consentito nel frattempo di creare «welfare» nei Paesi dell’Highway 10, facendo girare soldi e lavoro, attraverso un’economia parallela molto più ricca di quella legale alla quale si va a sovrapporre. Su quel canale a L passa tutto, tanto da candidare il Sahel a diventare il nuovo baricentro di proiezione jihadista. Il fenomeno è stato descritto da alcuni rapporti di Europol, Interpol e Unodc attraverso il concetto di policriminalità, reti criminali che sfruttano i medesimi canali di traffico e in cui convergono diversi «prodotti»: esseri umani, droga, armi e jihad. La stessa infrastruttura si usa per tutti i traffici secondo la «teoria delle reti», autostrade battute da tutti e in cui prolificano nuovi «hotspot». Il risultato è il formarsi di holding della policriminalità con un crescente numero di attori. Un campanello d’allarme dal quale si evince che la nuova frontiera non è più la sponda Sud del Mediterraneo, né i confini meridionali della Libia. La nuova trincea nella lotta a terrore e orrore è più a Sud, come confermano il via libera alla missione militare italiana in Sahel, la massiccia presenza francese con i circa 4 mila militari del contingente «Barkhane», la spinta delle Nazioni Unite a creare un esercito dei G5 (Mauritania, Burkina Faso, Mali, Niger e Ciad).
Quello africano, tuttavia, è un progetto che si articola anche su un meridiano, il numero 30, attorno al quale si stanno coagulando realtà dello Stato islamico, dal Sinai alla Somalia, dove la tenuta di Al-Shabaab, garante di un welfare che colma il vuoto istituzionale, garantisce lo stato di «porto franco» del Paese. E dove a Nord-Est si sta infiltrando l’Isis, come confermano informative di Africom sui raid compiuti dalle forze Usa nella regione. Uno slancio da Nord a Sud reso possibile grazie ad alleanze con tribù e bande armate, specie del Sudan, dedite a contrabbando e rapimenti, come ex affiliati del Movimento di liberazione del Darfur, composto da miliziani delle tribù Zaghawa, Masalit e Fur. Un diagramma sul quale – rivelano fonti francesi – incombe il rischio di avvicinamento di gruppi vecchi e nuovi, da Al-Qaeda in Maghreb all’Isis, passando per Boko Haram, di concerto con la sovrapposizione di traffici di armi, droga, esseri umani. E di uranio, il «business del futuro» su cui convergono gli interessi di tutti, jihadisti e trafficanti, decisi a compiere un ulteriore salto di qualità.