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 2018  gennaio 24 Mercoledì calendario

APPUNTI SUL PROTEZIONISMO PER GAZZETTA

ALESSANDRO BARBERA, LASTAMPA.IT –

Fuori splende il sole. Gli elicotteri della sicurezza americana volano sulle montagne di Davos per preparare l’arrivo del presidente. La notizia dei nuovi dazi contro la Cina non hanno sorpreso nessuno, ma confermano che sulla questione commerciale Donald Trump fa sul serio. Angela Merkel ha già fatto sapere che non lo incontrerà, e la ragione la si intuisce dopo la prima riga del suo intervento al World Economic Forum. Giacca azzurra d’ordinanza, sorridente, Merkel sale sul palco blu, apre la cartellina nera e legge tutto d’un fiato il discorso in tedesco. «Noi crediamo che l’isolazionismo non ci faccia andare avanti, dobbiamo cooperare, il protezionismo non è la risposta giusta». Che i due non si amassero lo si era capito sin dall’inizio. Due storie, due visioni e caratteri troppo diversi: lei politica, figlia di un pastore protestante, lui spregiudicato uomo d’affari. Il solco lo approfondiscono le circostanze: la Merkel va cercando una nuova legittimazione in patria, e tornerà ad essere Cancelliera con pieni poteri solo a primavera con il sostegno determinante dei socialdemocratici dell’Spd.  


Mentre Merkel sale sul palco sta uscendo Paolo Gentiloni, con il quale idealmente si scambia il testimone. Alle 17.30 a Davos ci sarà anche Emmanuel Macron. Per un soffio il fondatore Charles Schwab non riesce ad organizzare un dibattito fra i tre. Merkel abbraccia Gentiloni fra i fotografi, come a voler sottolineare l’unità di intenti dei principali azionisti dell’Unione. «Nel mondo c’è troppo egoismo nazionale. Fin dai tempi dell’Impero Romano e della Grande Muraglia sappiamo che limitarci a rinchiuderci non aiuta». Come accadeva spesso nei mesi bui della crisi dell’eurozona nel 2011, Merkel cita le “lezioni dimenticate della storia” e “I sonnambuli” di Christopher Clark, il libro che raccontò come l’Europa scivolò quasi senza accorgersene nella prima guerra mondiale. «Dobbiamo assumerci maggiori responsabilità, dobbiamo prendere il destino nelle nostre mani». Merkel lamenta che l’Europa si è mostrata troppo esitante sull’Isis, le crisi in Africa e la guerra in Siria.  

 

Il discorso della Merkel è così progressista da risultare quasi sospetto: “Il populismo di destra è veleno per l’Europa”. La Cancelliera dice che occorre andare avanti con l’integrazione europea, con l’unione bancaria e una difesa comune. Tutti progetti «incoraggiati dall’elezione di Macron, il quale ha dato all’Unione nuovo impeto». Infine Merkel chiede la creazione di un “mercato unico digitale”. Ne fa anzitutto una questione di sicurezza per gli europei: “Siamo sottoposti a una forte pressione, le grandi società statunitensi hanno accesso ai nostri dati”. E oggi “i dati sono le materie prime del ventunesimo secolo. Chi li possiede?” Già: chi li possiede? 


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GIUSEPPE SARCINA, CORRIERE DELLA SERA –

Donald Trump va allo scontro commerciale con la Cina. E comincia dai pannelli solari. Dazi per quattro anni sull’importazione negli Stati Uniti: all’inizio il prelievo sarà pari al 30% del valore; poi andrà a scalare fino al 15%. Dopo tanti slogan e proclami, ecco i primi fatti: il protezionismo americano si materializza proprio nel giorno di apertura del World Economic Forum di Davos. Una provocazione premeditata? Forse. Il governo americano, però, ci stava lavorando da tempo. Il 18 dicembre 2017 il presidente aveva presentato il documento sulla «Nuova strategia per la sicurezza nazionale»: la Cina guidava la lista degli «avversari economici». Il 17 gennaio 2018, in un’intervista con Reuters , Trump aveva annunciato una serie di provvedimenti in arrivo per contrastare «le scorrettezze» cinesi. 

Ma l’amministrazione imporrà dazi anche sulle importazioni di lavatrici per i prossimi tre anni: 20% sui primi 1,2 milioni di pezzi e addirittura del 50% sulle quantità aggiuntive. Gli Usa si riforniscono di elettrodomestici «bianchi», come sono chiamati in gergo, soprattutto da due grandi gruppi della Corea del Sud: Samsung e Lg Electronics. Il segnale è molto chiaro. Se sono in gioco «gli interessi delle industrie e dei lavoratori americani» Trump non fa distinzioni. Anche gli alleati più strategici, come è il caso della Corea del Sud, possono finire tranquillamente sulla lista nera. Su questo punto la squadra trumpiana sembra insolitamente compatta: militari e affaristi sono d’accordo. La «Nuova strategia per la sicurezza nazionale» è stata messa a punto dal generale Herbert Raymond McMaster, mentre la concretezza delle misure si deve al Rappresentante per il commercio Robert Lighthizer, avvocato settantenne dell’Ohio, in campo contro «la minaccia cinese» fin dal 1983, quando era vice ministro nell’amministrazione di Ronald Reagan.

Certo ora Washington dovrà prepararsi alla reazione dei Paesi colpiti. La Cina e la Corea del Sud hanno già fatto sapere ufficialmente che faranno ricorso al Wto. 

Inoltre andranno fronteggiate le proteste che salgono da larghe filiere di imprese. Certo la Whirlpool, multinazionale degli elettrodomestici con sede in Ohio, lo Stato di Lighthizer, esulta per il fardello imposto ai concorrenti sudcoreani. E due società specializzate nel solare, la Suniva e la SolarWorldAmericas, applaudono al freno posto al flusso dei pannelli cinesi. Ma i prezzi bassi di queste componenti hanno consentito finora a molte imprese di fornire impianti solari a costi sempre più convenienti. Abigail Ross Hopper, la presidente dell’associazione dei produttori, la Solar energy industries association, osserva in una dichiarazione riportata dal New York Times : «I dazi causeranno una crisi in una parte della nostra economia che si sta sviluppando velocemente. Alla fine decine di migliaia di operai americani perderanno il posto di lavoro».

La difficoltà è proprio questa: il protezionismo si rivela una politica divisiva non solo sul piano internazionale, ma anche all’interno del Paese. Dazi e quote mirate si stanno trasformando in linee di politica industriale a favore dei pochi grandi finanziatori dell’amministrazione: le lobby petrolifere, del carbone, dell’industria pesante e dell’acciaio.


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FEDERICO RAMPINI, LA REPUBBLICA –

Le prime vittime sono Cina e Corea del Sud ma presto toccherà ad altri. È iniziata la vera guerra commerciale di Donald Trump. Un’altra promessa elettorale diventa realtà. Segna la “ fase due” della sua politica economica, dopo la maxi-riduzione delle tasse sulle imprese. Ieri il presidente ha varato superdazi su due categorie d’importazioni: pannelli solari e lavatrici. Una tassa d’importazione del 30% colpisce i pannelli solari, per lo più made in China, anche se marginalmente soffriranno alcuni produttori europei, canadesi e messicani. È del 50% il dazio contro le lavatrici made in South Korea, di marca Samsung e Lg. Alla vigilia del suo arrivo al World Economic Forum di Davos, ritrovo dell’establishment “ globalista”, Trump si conferma nel ruolo del guastatore supremo: rende operante il protezionismo proprio mentre lo attende il Gotha della finanza e delle multinazionali al raduno esclusivo in Svizzera. Ma come ama ripetere lui, “ sono stato eletto presidente degli Stati Uniti, non del mondo”. America First diventa realtà con un’offensiva protezionista che è l’avvisaglia di una nuova fase. Gli Stati Uniti che avevano guidato l’apertura degli scambi internazionali, diventano il capofila della contro-reazione. E non deve ingannare il carattere finora circoscritto dei dazi.Nei due casi specifici, Trump ha accolto ricorsi presentati da aziende americane. Due società produttrici di pannelli solari, in bancarotta, hanno chiesto al governo protezione contro la concorrenza sleale cinese cioè le vendite in dumping ( sottocosto grazie a sovvenzioni pubbliche). Nelle lavatrici è stata la Whirlpool americana a presentarsi come parte lesa nei confronti dei sudcoreani. Per applicare i superdazi Trump rispolvera una legge del 1974, antecedente alla creazione della World Trade Organization (Wto, l’organizzazione del commercio mondiale). Lo fece anche George W. Bush nel 2002 per proteggere l’acciaio made in Usa contro la concorrenza asiatica, ma poi fu costretto a ritirare il provvedimento dopo un’ingiunzione del Wto che è il tribunale del commercio estero.La mossa di Trump, oltre alle prevedibili proteste dei paesi colpiti, ha suscitato reazioni contrastanti all’interno degli Stati Uniti. Applaudono gli Stati industriali, e anche diversi leader democratici eletti in quelle aree. La base operaia – che fu decisiva per l’elezione di Trump – da tempo chiede protezione. Qualche critica arriva dall’ala repubblicana neoliberista che usa un argomento classico: i dazi rischiano di punire i consumatori, se i prodotti d’importazione sono i meno cari. Tra le resistenze interne c’è la protesta dell’associazione che riunisce le aziende installatrici di pannelli solari: secondo loro il protezionismo costerà 23.000 posti di lavoro americani. L’indotto dell’energia solare ha avuto un boom anche grazie al basso costo delle apparecchiature cinesi.I prossimi capitoli di quest’offensiva dovrebbero riguardare l’acciaio, l’alluminio, e il “ furto di proprietà intellettuale” che Trump rimprovera ai cinesi. Nel caso di acciaio e alluminio l’accusa è dumping. L’altro tema riguarda le norme cinesi che in molti settori impongono alle imprese straniere di prendersi un socio locale e trasferirgli il proprio know how. Alcuni di questi comportamenti sono legali in base alle norme del Wto, le quali però vennerostabilite a un’epoca – quasi 20 anni fa – in cui la Cina era sottosviluppata e quindi aveva bisogno di agevolazioni per integrarsi. Oggi è anacronistico che Pechino possa infliggere legalmente dazi cinque volte superiori ai reciproci americani. Trump vuole un “ commercio equo e reciproco”, per equilibrare un disavanzo bilaterale di 300 miliardi di dollari all’anno.I “ globalisti” che lo aspettano a Davos accuseranno il presidente americano di trascinare il mondo verso una spirale del protezionismo dalla quale tutti saremo danneggiati. Ma il “pensiero unico” di Davos – criticato dalla sinistra prima ancora che da Trump – non tiene conto delle asimmetrie della globalizzazione. La Cina può applicare ritorsioni e fare del male ad alcune multinazionali Usa, ma nell’insieme ha più da perdere.Quando una nazione basa il suo sviluppo sull’accumulo di giganteschi avanzi commerciali, è più vulnerabile al protezionismo rispetto ai paesi in deficit commerciale. Ronald Reagan usò l’arma del protezionismo negli anni Ottanta contro i giapponesi che invadevano il mercato americano con le auto.I “ contingenti” imposti da Reagan spinsero la Toyota ad aprire fabbriche negli Stati Uniti creando occupazione per gli americani. L’idea che il protezionismo sia sempre un danno per tutti, è tipica dell’élite di Davos, che dalla globalizzazione ha estratto il massimo dei benefici, condividendone pochi con il resto della società.
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TONIA MASTROBUONI, LA REPUBBLICA –
Democrazia e liberalismo: per decenni la retorica occidentale ne ha predicato l’indistricabilità e si è crogiolata nell’illusione che al di fuori dei sistemi politici liberi non potesse esistere un’economia libera e florida. E invece. Ieri il premier indiano Narendra Modi è arrivato a Davos con una nutrita delegazione che ha ravvivato i grigi muri di cravatte e tailleur del Forum con una marea di coloratissimi sari e una filosofia nuova. La più grande democrazia del mondo è sulla china di una deriva nazionalista che sta allarmando l’intera regione, ma a Davos è venuta a propugnare il libero mercato e una globalizzazione «che ha perso il suo lustro» e che va reinventata secondo logiche nuove, tenendo conto delle tradizioni locali. Anche se, ha aggiunto Modi, « l’isolazionismo non è una soluzione a questa preoccupante situazione». E quando il premier ultranazionalista ha cominciato la sua relazione in hindi, il fruscio in sala di centinaia di mani alla frenetica ricerca delle cuffie è sembrato il simbolo di un mondo che fatica a capire che il suo baricentro si sta sgretolando. Se Merkel parla in tedesco e Macron in francese, è normale aspettarsi che anche il premier indiano Modi si esprima nella sua lingua madre.A Davos, le sue parole sono state accolte, condite com’erano di promesse sulla stesura di “tappeti rossi” per gli investitori, da applausi scroscianti. Il premier indiano ha voluto mandare un messaggio al paladino dell’isolazionismo che sta per irrompere sul palcoscenico di Davos: Donald Trump. Che, tanto per far capire che non ha alcuna intenzione di compiacere la platea, si è fatto precedere da una serie di schiaffoni protezionistici che sembrano sancire definitivamente il divorzio tra democrazia e liberalismo.Una separazione percepita come dolorosa ormai soltanto in Europa. A Davos anche la performance da campione del liberalismo dell’anno scorso di Xi Jinping, alla guida di un regime che di democratico non ha nulla, è stata salutata da ovazioni. E forse non è un caso che nazionalismi e populismi in vertiginosa ascesa ovunque non spaventino i mercati, che trovano sempre il modo di ritagliarsi una nicchia di euforia. Attualmente riguarda la riforma fiscale di Trump. E le democrazie in ritirata non stanno intaccando minimamente uno dei più robusti e sincronici momenti di ripresa economica globale da almeno un decennio. Euforia economica e “recessione geopolitica”, per usare la ormai celebre definizione di Ian Bremmer, non sono incompatibili. L’America di Trump, secondo i dati presentati proprio qui a Davos dal Fmi, corre come non accadeva da tempo.Che «il picco della globalizzazione » sia «alle spalle» lo sostiene anche un interessante rapporto presentato ieri da Credit Suisse che ha tentato di tirare le fila di questa “recessione geopolitica”. Per Michael O’ Sullivan « nei prossimi dieci anni, i trend politici saranno quelli verso l’eccezionalismo regionale » , come è sembrato sostenere ieri anche Modi. E O’ Sullivan gli ha dato un titolo: « La democrazia è il mio Sinatra», ispirandosi al celebre brano “ My way”. Il mondo sta diventando multipolare e «ognuno di disegna il proprio sistema » . Nel rapporto, l’ex premier britannico John Major avverte che «nell’Occidente democratico pensiamo che il nostro modello di democrazia liberale, sociale ed economico sia intoccabile. Non lo è » . E purtroppo anche i mercati sembrano essere diventati estremamente resilienti alle involuzione populiste e nazionaliste. Inoltre se oggi l’ 8,6% della popolazione mondiale possiede l’85% delle ricchezze e l’1% ne controlla addirittura oltre il 50%, le democrazie non hanno fatto quasi nulla per evitare queste derive nelle diseguaglianze. Distruggendo un altro enorme patrimonio di consenso. Davos, almeno quest’anno, ha mostrato di saper riflettere sul fatto, come sottolinea Afshin Molavi del John Hopkins Sais Foreign Policy Institute, che le trasformazioni più importanti stanno avvenendo nell’ 85% dei Paesi che rappresentano il mondo non-Occidentale.
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ALESSANDRO BARBERA, LA STAMPA –

Alessandro Barbera

Sentirlo dire a Davos, fra gli stand ricoperti di neve di Facebook, Google, Palantir, Bank of America o Hsbc fa impressione. «La globalizzazione? E’ in declino». Michael O’Sullivan è il capo degli investimenti (irlandese) della svizzera Credit Suisse. Il grafico che accompagna il suo ragionamento è impietoso. Nel 2008, prima che la crisi dei mutui subprime si spostasse dagli Stati Uniti all’Europa, i flussi del commercio mondiale avevano raggiunto il loro picco, al 61 per cento della ricchezza globale. Negli ultimi sei anni il calo di quei flussi è costante. Visto da qui, Donald Trump è l’effetto di un fenomeno, non una causa. Fino a qualche anno fa il termine multilateralismo era usato solo in diplomazia. Ora identifica la risposta della politica al protezionismo.

A Davos economisti e uomini d’affari parlano di Europa e Stati Uniti come delle «angry countries», l’unica area del mondo in cui i salari sono scesi e le disuguaglianze aumentate. Lunedì, battendo sul tempo i colleghi capi di Stato che stanno sfilando a Davos, Emmanuel Macron ha invitato a Versailles 140 capi di grandi aziende e multinazionali al motto «investite in Francia». Cosa c’è di diverso fra il suo approccio e quello di Trump? «Moltissimo», dice a La Stampa il premio Nobel Joseph Stiglitz. «Una cosa è invitare a scegliere la Francia, altro è tagliare le tasse in funzione del rientro degli investimenti in patria. Trump ragiona da uomo d’affari, e non pensa nemmeno per un minuto alle conseguenze della sua manovra fiscale nel medio termine: le vedremo in un paio d’anni». Stiglitz è «in totale disaccordo» con le stime del Fondo monetario internazionale: teme l’esplosione del surplus commerciale e un aumento dei tassi tale da far venir meno la spinta agli investimenti anzitutto negli Stati Uniti. Alla domanda se Paesi come l’Italia potrebbero applicare una ricetta del genere Stiglitz si inalbera: «Assolutamente no. Per recuperare il terreno perduto in questi anni con la Cina non c’è bisogno di andare lontano: dovreste prendere ad esempio la Svezia». Meno tasse, uno stato sociale più leggero, ma grande apertura agli investimenti stranieri (anche quelli cinesi), alla concorrenza e all’innovazione. «Bisogna intendersi sul concetto di protezionismo», dice Mario Monti. «Ricordo ancora l’accusa che mi piovve addosso dall’altra parte dell’Atlantico quando ero commissario europeo e infliggemmo la maximulta a Microsoft».
Monti su Trump e l’Italia la pensa come Stiglitz, ma con la solita ironia cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno: «I leader europei dovrebbero dire un grazie al presidente americano». In fondo non dice «Texas first» o «Vermont first», ma «America first». Per paradosso l’iniziativa protezionista ha lo stesso effetto virtuoso della Brexit: «L’Unione sente il bisogno di fare passi avanti nell’integrazione economica». E questo non potrà che far bene anche all’Italia.
L’economista di Harvard Kenneth Rogoff teme che la ricetta Trump faccia riemergere un fantasma del passato: l’iperinflazione. E spiega perché quel piano è inapplicabile ai Paesi ad alto debito: «Con stimoli così ci sono buone probabilità che i prezzi salgano rapidamente, e con essa i tassi di interesse. Se così fosse, cosa ne sarà del debito di Italia e Giappone?» E chi è uno dei più grandi possessori di titoli pubblici in Italia? Il fondatore di Carlyle David Rubinstein ricorda che quando suonano gli allarmi le barriere le alza chiunque: «Ciascuno vuole controllare i propri istituti. Pensate che Berlino farebbe mai fallire Deutsche Bank in nome dell’Unione bancaria?». Il numero due della Consob cinese Fang Xinghai confuta subito la tesi di Rubinstein: «Se in Cina si presentasse un problema per le banche non esiteremmo a intervenire con fondi pubblici». È come dice Monti: occorre intendersi sul concetto di protezionismo. 


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GIU.FER., CORRIERE DELLA SERA –

Mentre Donald Trump firma dazi doganali sui pannelli solari e sulle lavatrici, minacciando misure anche sull’acciao e l’alluminio, al World Economic Forum di Davos si alza una levata di scudi contro il protezionismo. Il premier indiano Narendra Modi ieri ha detto che nuove barriere al commercio internazionale rappresentano una delle tre più grandi minacce per l’economia globale. E, a poche ore di distanze, il premier canadese Justin Trudeau ha annunciato con soddisfazione che il Canada ha raggiunto l’accordo per il via libera al Tpp, la partnership commerciale con altri 10 Paesi dell’Asia pacifico (Giappone incluso, ma non la Cina), dopo il no di Trump all’intesa siglata da Barack Obama.

«Contro la globalizzazione si stanno levando forze protezionistiche», ha affermato Modi. Senza nominare mai il presidente Usa, il premier indiano ha dichiarato che «l’impatto negativo di questo tipo di mentalità non può essere considerato meno pericoloso del cambiamento climatico e del terrorismo». Perciò ha sollecitato i governi a non scegliere l’isolazionismo. E ha citato Gandhi: «Non voglio che le finestre della mia casa siano chiuse da tutte le direzioni. Voglio che i venti delle culture di tutti i Paesi entrino ed escano dalla mia dimora con calma».

Le parole di Modi hanno riecheggiato in molti passaggi il discorso del presidente cinese Xi Jingpin, che l’anno scorso si è presentato a Davos come il campione del libero commercio e il paladino della globalizzazione, nella settimana in cui Trump si insediava alla Casa Bianca. Ma se India e Cina hanno beneficato enormemente dalla globalizzazione che ha offerto capitali, know-how e uno sbocco ai loro+ prodotti in mancanza di mercati interni maturi, secondo Trump il libero commercio ha rubato i posti di lavoro degli americani e impoverito le famiglie. La campagna del presidente Usa all’insegna del motto «America First» punta perciò a riportare a casa produzioni manifatturiere e occupazione, come spiegherà venerdì durante il suo intervento che chiuderà il Forum.

Che la globalizzazione vada governata lo ammette anche Trudeau. «Vedo molto scetticismo intorno al commercio internazionale. La gente comune teme che non avrà benefici. Nei trattati dobbiamo includere certi aspetti cari alle persone, perciò abbiamo rivisto il Tpp, prima della firma. Questa è l’intesa giusta per creare e sostenere la crescita. E se il commercio avvantaggia soprattutto la classe media, noi dobbiamo fare in modo che i benefici siano estesi a tutti. Ora speriamo - auspica - che il nostro vicino si renda conto di quanto sia positivo il trattato del Nafta», l’accordo commerciale tra Canada, Usa e Messico che Trump vuole rinegoziare .


 


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REPUBBLICA.IT –

Angela Merkel calca il palcoscenico di Davos per la decima volta e lo fa mandando un messaggio molto chiaro a Donald Trump e a chi ne minimizza la deriva protezionistica. La cancelliera ha aperto la sua relazione davanti alla platea del Forum economico mondiale ricordando l’anniversario della fine della Prima guerra mondiale, quando l’Occidente protezionista - e qui la cancelliera cita un famoso libro sulla Grande guerra - scivolò "nottambulo" nel conflitto.

Merkel ha scandito che "isolarsi dal resto del mondo non aiuta e che il protezionismo non è la risposta giusta", che bisognerebbe "cercare soluzioni multilaterali e non unilaterali", anche "se ci vuole pazienza". Dobbiamo cercare un dialogo multilaterale, ha aggiunto, ogni volta che "pensiamo che che le cose non vanno per il verso giusto e che i meccanismi non siano reciproci". La leader conservatrice ha anche lamentato "i troppi egoismi" nazionali e ha messo in guardia dai "populismi che avvelenano l’Europa".

La cancelliera ha tenuto alta la bandiera dell’Europa, ricordando i progressi fatti nel multilateralismo dopo la Seconda guerra mondiale e, più di recente, il rilancio europeo, i passi in avanti sulla difesa comune, "che non è contro la Nato". Merkel ha anche precisato che sui conflitti che ormai circondano l’Europa bisogna andare avanti "tenendo conto che non possiamo più fare affidamento sugli Stati Uniti" e che "dobbiamo dunque prendere il destino nelle nostre mani".


Sulla stessa linea della cancelliera il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, che ha parlato immediatamente prima di lei: "Rispetto totalmente il fatto che Trump sia stato eletto con l’idea di mettere l’America ’first’ e che stia cercando di andare in quella direzione. Ma, come europei e italiani, dobbiamo evidenziare il fatto che rispettare e proteggere gli interessi dei cittadini statunitensi, che è corretto, non può significare che noi mettiamo in discussione l’intelaiatura di quelle relazioni commerciali che si sono rivelati estremamente utili per la crescita. Il dibattito è aperto - ha proseguito il premier da Davos - ma la base della discussione dovrebbe continuare ad essere il sostegno all’apertura, al libero commercio e agli accordi, non al protezionismo".

Nel pomeriggio, il fronte europeo si è confermato unito contro il protezionismo e a favore degli accordi internazionali sull’ambiente con l’intervento del presidente francese Emmanuel Macron. Che ha iniziato il suo intervento con una frecciata ironica contro Trump: "Con questa neve - ha detto il presidente francese - è difficile credere nel riscaldamento globale.

Naturalmente, e per fortuna, quest’anno non avete invitato nessuno che sia scettico su questo".


Poi l’intervento del presidente francese si è concentrato sul ruolo europeo di Parigi: "La Francia è tornata al centro dell’Europa, non vi sarà un successo francese senza un successo europeo. Tutte le iniziative e riforme in Francia hanno una controparte naturale che è la strategia europea". E ribadendo l’importanza degli accordi di Parigi ha sottolineato come "la Francia deve essere un modello nella lotta al cambiamento climatico. Si può creare tanto lavoro, dobbiamo accelerare la strategia verde, soprattutto nella riduzione dell’emissione di C02. Lanceremo nuove finanziamenti su questo fronte per ’make your planet green again’".


Stamane una prima e importante delegazione americana giunta a Davos e costituita dal Segretario al tesoro Steven Mnuchin e il Segretario al Commercio Wilbur Ross ha difeso sia la riforma fiscale sia la recentissima decisione di imporre dazi sulle lavatrici e i pannelli solari. "Noi crediamo in un sistema fiscale territoriale", ha detto Mnuchin, sottolineando come dai mercati "sia arrivata una risposta molto positiva" alle mosse di Trump.

Ross ha ribattuto a chi gli chiedeva delle mosse neo-protezioniste, che "alcuni Paesi adottano un protezionismo estremo". E Mnuchin, a proposito dei rimbalzi del dollaro, ha sottolineato che "un dollaro debole è meglio per l’export". Quando all’accordo transatlantico sul commercio Ttip, che è stato difeso ieri dal premier canadese Justin Trudeau, sempre dal palco di Davos, Mnuchin ha detto che "non è morto ma noi siamo per fare accordi bilaterali".



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AGI.IT –Cina e Corea del Sud promettono di ricorrere al Wto, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, dopo l’approvazione da parte dell’amministrazione Usa guidata da Donald Trump, di dazi sulle importazioni di componenti per pannelli solari e lavatrici, e affilano le armi contro i venti di guerra commerciale che soffiano da Washington. “Il protezionismo è un’arma a doppio taglio che ferisce non solo gli altri ma anche se stessi”, è stato il commento di oggi della portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Hua Chunying, alla mossa degli Stati Uniti, a cui Pechino aveva già risposto seccatamente ieri. 

Pechino bolla i dazi come un "abuso"

La prima reazione era stata quella di un funzionario del Ministero del Commercio, Wang Hejun, a capo dell’ufficio per le indagini e le azioni commerciali, che aveva espresso “forte insoddisfazione” e aveva parlato apertamente di “abuso” da parte degli Stati Uniti nel ricorso ai dazi fino al 30% sulle importazioni i pannelli solari. La Cina, aveva promesso, “lavorerà con i membri del Wto, per difendere con risolutezza i propri interessi legittimi, in risposta a un’erronea decisione degli Stati Uniti”.


 Le più colpite saranno Samsung e Lg 

Un commento simile era arrivato anche da Seul, che tramite il ministro del Commercio, Kim Hyun-chong, ha definito “eccessiva” l’imposizione di dazi su pannelli solari e lavatrici, che “apparentemente costituisce una violazione delle disposizioni del Wto”, promettendo il ricorso all’Organizzazione Mondiale del Commercio per contrastare quelle che la Corea del Sud vede come pratiche commerciali protezionistiche. I dazi - del 20% sulle prime 1,2 milioni di lavatrici importate nel primo anno da quando entreranno in vigore e del 50% sul resto delle lavatrici che entreranno negli Usa - avranno un impatto soprattutto su Samsung e Lg, due colossi dell’industria di Seul, che esportano annualmente tra le 2,5 e le tre milioni di lavatrici sul mercato statunitense, coprendo circa un quarto del mercato dove dominano le locali Whirlpool e General Electric. 


L’ossessione di Trump per "America First"

A riflettere, oggi, sugli scenari di una possibile guerra commerciale innescata dalla decisione di lunedì scorso dagli Stati Uniti, è anche il Global Times, uno dei più influenti giornali cinesi, che ricorda come già in passato, Washington e Pechino siano finite ai ferri corti per dispute commerciali. “Non è la prima volta che i produttori cinesi di pannelli solari soffrono di azioni commerciali dagli Stati Uniti”, scrive il tabloid di Pechino. “Imporre brutalmente alte tariffe a dispetto delle regole del Wto è un oltraggio ancora più grande”, anche se “in linea con l’ideologia “America First” di Trump”. Il presidente Usa, continua il quotidiano di Pechino, è “ossessionato dall’onorare le promesse fatte agli elettori, senza riguardo per le conseguenze.


Pechino minaccia di bloccare di nuovo le importazioni di carne di manzo

Ingaggiare una guerra commerciale con la Cina è qualcosa che va al di là della sua comprensione e del suo controllo”. Negli scenari delineati dal quotidiano ci sono poi le possibili “contromisure” che la Cina potrebbe adottare nei confronti degli Usa, a cominciare dalle importazioni di carne di manzo: sbloccate lo scorso anno, avverte il Global Times, potrebbero essere soggette a nuove regolamentazioni e a innalzamenti degli standard sanitari che potrebbero limitarne l’ingresso. Nel caso di una guerra commerciale, poi, molti altri Paesi potrebbero approfittare delle tensioni per sostituirsi agli Usa nelle esportazioni verso Pechino di semi di soia e di cotone. Lo stesso, ha lasciato intendere il quotidiano, potrebbe valere anche per il settore della componentistica o per quello automobilistico. 


Liu He a Davos, "Cina inflessibile contro il protezionismo"

Dal World Economic Forum di Davos, in Svizzera, intanto, la Cina ha nuovamente ribadito il proprio no ai venti di protezionismo commerciale che soffiano da Washington. Liu He, il consigliere economico del presidente cinese, Xi Jinping, ospite del meeting tra le nevi, ha ribadito che la Cina “è inflessibile contro ogni forma di protezionismo” e che Pechino è impegnata con “azioni concrete” a sostegno della globalizzazione, sottolineando, nel suo intervento sullo stato dell’economia cinese al forum tra le Alpi svizzere, che “il nostro sistema finanziario è fondamentalmente stabile”. 


Seul punta a rendere più competitive le sue imprese

Per contrastare i dazi sulle importazioni pannelli solari da parte degli Stati Uniti, la Corea del Sud sta già pensando alle prime contromisure. In un incontro con gli esponenti dell’industria fotovoltaica, il capo del dipartimento per l’Energia del Ministero di Seul, Park Won-ju, ha proposto oggi un innalzamento degli investimenti nel settore e contemporaneamente un abbassamento delle regolamentazioni per la realizzazione di parchi fotovoltaici per attutire il colpo sferrato da Washington. “Se i gruppi coreani supereranno questa crisi, avranno l’opportunità di migliorare la loro competitività a livello globale”, ha detto il funzionario di Seul agli imprenditori del fotovoltaico sud-coreano. La Corea del Sud è il terzo esportatore verso gli Stati Uniti di pannelli fotovoltaici, dopo Cina e Malaysia e lo scorso anno ha esportato moduli solari per 1,3 miliardi di dollari. 


Analisti temono effetto boomerang, 23mila posti di lavoro a rischio

L’approvazione di dazi su componenti per pannelli solari e grandi lavatrici preoccupano anche gli analisti internazionali, che temono un rallentamento di questi due settori e una perdita di migliaia di posti di lavoro. C’è anche chi, come Tom Werner, Ceo della statunitense Sun Power, teme che i dazi possano rivelarsi un boomerang per l’industria del fotovoltaico statunitense. La sua stessa azienda, ha detto in dichiarazioni riprese dal Financial Times, potrebbe “soffrire danni collaterali in un caso che ha come obiettivo chiaramente la Cina”. A quantificare il danno per il settore negli Usa è la Solar Energy Industries Association, che teme la perdita di 23mila posti di lavoro su 260mila negli Stati Uniti, circa il 9% del totale. MJ Shao, analisti di GMT Research, ha poi stimato una riduzione delle installazioni di pannelli solari negli Usa dell’11% nei prossimi cinque anni, “Significativa, ma non devastante”, a suo giudizio, che colpirebbe soprattutto Texas, Florida e California.


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ILSOLE24ORE.COM –

L’eco dei dazi imposti dagli Stati Uniti su lavatrici old economy e pannelli solari new economy è ancora forte a Davos, quando la cancelliera tedesca Angela Merkel prende la parola in una sala congressi che pende dalle sue labbra. Merkel parla con la solita flemma, ma non delude: «Oggi - scandisce - cento anni dopo la catastrofe della Grande Guerra, dobbiamo chiederci se abbiamo imparato la lezione della storia, e a me pare di no». La risposta alle carenze del commercio internazionale, alla mancanza di reciprocità e alle violazioni delle regole da parte di alcuni, «non è l’isolazionismo», afferma Merkel, ma al contrario occorre cercare «rimedi multilaterali, non seguire un percorso unilaterale, protezionista».

Quella di oggi doveva essere la giornata dell’orgoglio europeo e della difesa del sistema multilaterale, in attesa che venerdì arrivi al World Economic Forum il nemico dichiarato della globalizzazione, il presidente statunitense Donald Trump. E nelle parole della Merkel lo è stata. Anche quando ha definito «un veleno» il populismo che spinge gli Stati a chiudersi in sé stessi.

Sostenuta con decisione la difesa del multilateralismo e della cooperazione, Merkel passa alle sfide dell’Europa. «Abbiamo bisogno –spiega - di rafforzare l’euro, dobbiamo avere un’Unione europea sempre più integrata, completando l’unione bancaria e sviluppando una politica estera comune che ci permetta di confrontarci con Paesi come Usa, Cina e India». In questo senso, se la decisione del Regno Unito di abbandonare l’Unione suscita rammarico, dice Merkel, d’altro canto ci ha spinti a concentrarci sui problemi importanti e l’elezione del presidente francese Emmanuel Macron ha prodotto un nuovo impeto. Dobbiamo guardare avanti, ha detto Merkel, «la crisi dell’Eurozona non è alle spalle, ma è sotto controllo, ora dobbiamo fare passi avanti e creare un mercato digitale».

L’obiettivo è rispondere al monopolio dei big data esercitato «dalle grandi società statunitensi che accedono a un’enorme mole di dati. Ma chi controlla questi dati? Gli europei non hanno ancora deciso come gestire questo problema, il pericolo è che arriviamo tardi».

Merkel insiste molto sulle nuove tecnologie, senza tralasciare i pericoli che comportano e i rivolgimenti sociali che innescano. Per gestire il problema, secondo la cancelliera, la strada da seguire è costruire in Europa un’econmia sociale di mercato, sul modello della Germania.

Sulla Brexit, Merkel aggiunge che l’Europa è aperta alla partnership con il Regno Unito dopo il divorzio, «quanto questa partnership sarà stretta, dipende da loro».


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GIANLUCA DI DONFRANCESCO, IL SOLE 24 ORE –

Donald Trump attacca, Davos risponde. Aspettando che il duello tra il presidente degli Stati Uniti e il World Economic Forum si consumi venerdì prossimo, quando Trump calerà sul meeting in corso nel resort alpino, lo scontro tra due visioni del mondo si consuma a distanza. Con gli Stati Uniti che adottano dazi su pannelli solari e lavatrici e il Wef che si stringe attorno al premier indiano Narendra Modi, assurto al ruolo di difensore della globalizzazione.

Vesti che oggi saranno indossate dal presidente francese Emmanuel Macron e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, finalmente libera di tornare sulla scena politica internazionale dopo la lunga parentesi a cui l’ha costretta il complicato quadro politico tedesco.

Trump all’attacco 

In nome di America First e nel giorno di apertura dei lavori del World Economic Forum, l’Amministrazione americana fa scattare dazi su vecchi e nuovi settori, dalle lavatrici ai pannelli solari. La decisione, che il presidente Donald Trump ha firmato in pompa magna nello Studio Ovale, è stata difesa dalla Casa Bianca come una necessaria tutela della produzione domestica. I Paesi direttamente nel mirino sono la Cina per i pannelli solari e la Corea del Sud. Ma minacciano di coinvolgere anche Canada e Messico, partner nel Nafta, ed Europa. E di innescare ritorsioni.

Mentre a Davos si cerca una soluzione all’enigma “come costruire un futuro condiviso in un mondo frammentato”, Washington fa anche sapere che le sue azioni non resteranno isolate: in gioco solo nelle prossime settimane ci sono mosse su acciaio e alluminio. «Difenderemo sempre lavoratori, contadini, allevatori e imprese statunitensi», ha detto il rappresentante al Commercio Robert Lighthizer.

I Governi di Seul e di Pechino hanno definito l’azione un «abuso» che viola le regole della Wto. Il Messico ha fatto sapere che risponderà con «ogni mezzo legale».

Le misure 

Sono colpite le importazioni di pannelli solari, con dazi del 30% a scalare in quattro anni. Esenti ogni anno i moduli per i primi 2,5 gigawatt di energia. La Solar Energy Industry Association ha denunciato che l’aumento dei costi frenerà in realtà la crescita e distruggerà 23mila posti di lavoro solo nel 2018. Il 90% dei pannelli è importato, spesso dall’Asia, in un comparto che impiega 260mila americani. I produttori domestici invece esultano.

Sulle lavatrici i dazi saranno del 20% sugli iniziali 1,2 milioni di elettrodomestici importati, per poi lievitare al 50 per cento. La sovrattassa del 50% colpirà anche la componentistica. Le tariffe, che diminuiranno nel corso di tre anni, saranno accompagnante da quote sull’import. Whirlpool, che aveva presentato il caso, ha annunciato 200 assunzioni in uno stabilimento in Ohio che ne impiega 3mila.

Produttori sudcoreani con impianti negli Usa affermano invece che il giro di vite danneggerà anche le loro attività americane, come le fabbriche che Samsung e LG stanno costruendo in South Carolina e Tennessee.

Trump ha rispolverato una legislazione del 1974 che consente ad aziende statunitensi di chiedere «rimedi» di salvaguardia se hanno sofferto «danni significativi» da improvvisi aumenti dell’import. L’ultima volta era stato usato nel 2002 da George W. Bush per proteggere la siderurgia.

La risposta di Modi 

«Non voglio che i muri e le finestre della mia casa siano chiusi da tutte le direzioni, ma che il vento di tutti i Paesi entri con calma. Ma non accetterò che i miei piedi siano sradicati da questi venti». È questa la citazione di Gandhi che il premier indiano Modi ha scelto per marcare le distanze dall’unilateralismo di Trump, senza però rinunciare a criticare i difetti di una globalizzazione «che ha perso smalto» e che è assediata da forze che «vorrebbero invertirne il flusso».

Il risultato, ha aggiunto, «è che vediamo nuovi tipi di barriere tariffarie e non», mentre «i negoziati bilaterali e multilaterali sembrano a uno stallo». Chiaro accenno, questo, al fallito vertice Wto di dicembre e alle forti tensioni tra India e Stati Uniti.

Se la globalizzazione è in difficoltà, ha aggiunto Modi, è anche colpa dell’inadeguatezza delle istituzioni e delle organizzazioni internazionali, che forse non riflettono più «le aspirazioni e i sogni dell’umanità e della realtà di oggi. La soluzione non è però l’isolamento, ma formulare politiche flessibili in linea con il mutamento dei tempi», un globalismo che rispetti le differenze nazionali e culturali.

Le parole di Modi hanno trovato l’entusiasta risposta della platea raccolta ad ascoltare il messaggio di apertura del Wef, affidato dal padrone di casa Klaus Schwab a un leader politico impegnato in profonde riforme economiche e sociali, ma che cavalca il nazionalismo hindu e adotta a sua volta politiche populiste e protezionistiche. Una riedizione del 2017, quando Davos acclamò la difesa del multilateralismo fatta dal presidente cinese Xi Jinping.