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 2018  gennaio 23 Martedì calendario

Fini sotto processo

Gianfranco Fini, già presidente di Alleanza Nazionale e poi vicepresidente del Popolo delle libertà nonché presidente della Camera dei deputati, è oggetto con tutta la sua famigliola di una richiesta di rinvio a giudizio. Motivo? La famigerata casa di Montecarlo, ricevuta in eredità da una nobildonna bergamasca dal partito della destra e svenduto a due soldi al cognato dell’uomo politico, il quale dopo un po’ lo ha ceduto, guadagnandoci assai, al prezzo giusto: elevato. Una grande porcheria che fu denunciata da me quando dirigevo il Giornale, suscitando le proteste (accompagnate da insulti) di Fini stesso. Seguirono polemiche a non finire, fui processato e condannato e al termine assolto per questioni collaterali. 
Il prode Gianfranco ce l’aveva a morte con Berlusconi, il numero uno del partito. E si comprende. Tutti i numeri due aspirano a salire di un gradino. Fini si mise in testa di ascendere facendo fuori il capo profittando delle sue difficoltà giudiziarie. Egli andava in tivù e attaccava Silvio, scatenando gli applausi interessati della sinistra. Un putiferio. Liti continue tra i due galletti. Malumori, vendette covate, stracci volanti. Si dice che Fini abbia manovrato sotto acqua con Napolitano per far secco il Cavaliere e prenderne il posto. Non so cosa sia accaduto, ma le manovre fallirono. 
All’improvviso scoppiò la bomba: la casa di Montecarlo. La cui documentazione mi fu offerta da un collega. La esaminai e decisi di spararla in prima pagina. Fu subito scandalo. Gianfranco si giustificò in modo maldestro, noi del Giornale, grazie alle notizie raccattata da Gian Marco Chiocci, ora direttore del Tempo, montammo un tormentone devastante. Nessun collega della stampa e della tv ci prese sul serio. La maggioranza degli scribi strapazzò noi e difese la terza carica dello Stato. Una vergogna. 
Sono passati molti anni da quell’epoca funesta, e adesso salta fuori che avevamo ragione, tant’è che siamo arrivati alla richiesta di rinvio a giudizio. Troppo tardi per fare giustizia, signori miei. Il reato di riciclaggio non prevede che col tempo si estingua, causa prescrizione. In altre parole, se il processo tarda, non muore perché è invecchiato. Fini in qualche modo comunque la farà franca e a me non dispiace più di tanto. Mi basta sapere e che si dica apertis verbis la verità ossia che la casa di Montecarlo fu al centro di un pasticcio esattamente come noi lo raccontammo. 
Segnalo a Daria Bignardi, che in una sua puntata delle Invasioni Barbariche (in tv) tentò invano di incastrarmi quale persecutore di Gianfranco, la conclusione della faccenda. Questa: io ero nel giusto e lei aveva torto. Non mi aspetto le sue scuse, ma se andasse a nascondersi farebbe bene. Il quartierino monegasco fu oggetto di maneggi illegali, mentre i reportage del Giornale riflettevano la realtà. Una realtà truffaldina che ha rovinato la carriera, se non la reputazione, di un politico importante e ha gettato discredito sulla sua famiglia, un componente della quale è addirittura fuggito a Dubai, e se ne guarda dal rientrare in patria. 
A Fini non ho nulla di sgradevole da dire, tranne che poteva risparmiarsi questa figura di merda. 
Vittorio Feltri

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«Fini va processato». Una pm batte un colpo. Meglio tardi che mai 
Gianfranco Fini insiste. Ripete di essere «innocente». Aggiunge che tutto «era prevedibile» e sottolinea di avere «fiducia piena nella magistratura. Decisamente». 
Intanto però un magistrato (il pm Antimafia di Roma Barbara Sargenti), a distanza di dieci anni dall’inizio dei fatti e dopo una prima e vecchia archiviazione, chiede di mandarlo a processo insieme con la compagna Elisabetta Tulliani, il cognato Giancarlo e il suocero Sergio. 
Riciclaggio è l’accusa per l’ex presidente della Camera e famiglia che, in caso di condanna, rischiano dai quattro ai dodici anni. Oltre all’ex terza carica dello Stato e un tempo leader di An, il magistrato di piazzale Clodio vuole portare in aula anche l’imprenditore catanese (suo amico) Francesco Corallo (ribattezzato “il re delle slot”), nonché altri cinque indagati a vario titolo (peculato e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte), ritenuti capi e partecipi di un’associazione a delinquere a carattere transnazionale. 
I fatti che coinvolgono Gianfranco Fini e famiglia risalgono al 2008. Il fascicolo a carico dei Tulliani descrive (nello specifico) un giro di riciclaggio di oltre 7 milioni di euro: il profitto illecito accumulato da Sergio, Giancarlo ed Elisabetta ammonterebbe a questa consistente cifra. Con le carte che alzano il sipario e svelano anche la vera storia della casa di Montecarlo, quella che dal 2010 comincia a creare guai e imbarazzo all’allora presidente della Camera. 
Ma andiamo con ordine. Sergio, Elisabetta e Giancarlo Tulliani (sempre stando all’accusa) dopo avere ricevuto, attraverso loro società offshore, enormi trasferimenti di denaro disposti da Francesco Corallo (soldi privi di qualsiasi causale oppure giustificati con documenti contrattuali fittizi), avrebbero trasferito e occultato, con frazionamenti e movimentazioni ad hoc, lo stesso profitto illecito dell’associazione, utilizzando conti accesi in Italia e all’estero. 
L’affaire viene scoperchiato dal pm Barbara Sargenti, che indaga sui traffici di Francesco Corallo e il 13 dicembre 2016 ottiene l’arresto sia dell’imprenditore siciliano, sia di Giancarlo Tulliani, cognato di Fini (fuggito a Dubai e lì libero su cauzione). 
Nell’indagine è coinvolto anche l’ex parlamentare Amedeo Labocetta. Stando a chi ha indagato, l’organizzazione capeggiata da Corallo, riciclava in tutto il mondo i proventi del mancato pagamento delle imposte sul gioco on-line e sulle video-lottery. Una volta ripuliti, i soldi sporchi, sarebbero stati impiegati da Francesco Corallo in attività economiche e finanziarie, in acquisti immobiliari, e destinati anche alla famiglia Tulliani-Fini. 
Nelle carte, dicevamo, viene svelata anche la storia della nota casa monegasca. Tutto comincia nel 2008 (e viene denunciato da Libero e da il Giornale nel 2010), quando lo stesso immobile di boulevard Princesse Charlotte 14, di proprietà di Alleanza Nazionale (il partito lo aveva ricevuto come donazione dalla nobildonna Annamaria Colleoni) viene ceduto alla offshore Printemps, società che (si legge nell’ordinanza d’arresto) è «riconducibile a Giancarlo Tulliani, che ha abitato nell’appartamento in questione e ha lì trasferito la sua residenza il primo gennaio 2009». Tulliani, del resto, scrive ancora il giudice «risulta iscritto all’Aire-Ambasciata d’Italia Monaco, proprio dal primo gennaio 2009, con l’indirizzo “BD Princesse Charlotte 14 Montecarlo (Principato di Monaco)».
Pochi mesi dopo, l’immobile viene di nuovo venduto, dalla Printemps alla società caraibica Timara (di Elisabetta Tulliani) per 330mila euro, vale a dire proprio la cifra bonificata dal conto caraibico di Corallo. 
All’epoca (dopo le inchieste di Libero e Giornale) la Procura di Roma aveva indagato sul prezzo della vendita tra An e e Printemps, archiviando però il fascicolo. 
Non era servita una nota dell’allora ministro degli Esteri, Franco Frattini, indirizzata al Procuratore di Roma e alla quale, come dicono gli atti «l’allora ministro aveva allegato una dichiarazione del Primo Ministro di Saint Lucia (EE) King Stephenson, datata 2010, nella quale lo stesso Primo Ministro affermava che Tulliani Giancarlo era il titolare effettivo delle società Printemps Ltd, Timara Ltd e Jaman Directors Ltd». La stessa lettera è stata ritrovata nell’ufficio di Corallo (ai Caraibi), durante una perquisizione. 
Lo scorso maggio, il gip Simonetta D’Alessandro, si decide così a firmare un provvedimento di sequestro nei confronti di Gianfranco Fini definendolo più che la vittima di una manovra ai suoi danni, «un soggetto ben consapevole di chi fosse Francesco Corallo, ossia il titolare di un’impresa criminale, e con egli stesso in affari». Nella vicenda, Gianfranco Fini, avrebbe addirittura avuto una «centralità progettuale e decisionale». 
Cristiana Lodi 

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Il genero resta al sicuro nella sua casa di Dubai 
Il cognato, intanto, è al sicuro e col mare caldo davanti. Giancarlo Tulliani, ricercato su mandato internazionale per riciclaggio, aspetta infatti a piede libero la risposta alla richiesta di estradizione presentata dai magistrati di Roma. L’ex proprietario della casa di Montecarlo (accusato di riciclaggio come il padre Sergio, la sorella Elisabetta e Gianfranco Fini) si limita a lasciare il proprio passaporto nelle mani dell’autorità giudiziaria degli Emirati Arabi, misura necessaria per evitare che se la dia a gambe levate. 
Come ha fatto quando ha fiutato odore di manette, “Tulliani cognato” è rimasto mimetizzato e in latitanza per sette mesi a Dubai, prima di farsi fotografare in compagnia della fidanzata. A spasso, indisturbato, fra ristoranti e centri commerciali. Scappato dall’Italia (da Roma) è però riuscito a farsi arrestare a novembre scorso. Un colpo clamoroso: si è spontaneamente presentato davanti a due poliziotti dell’aeroporto di Dubai per denunciare come stalker due cronisti del programma di Giletti Non è l’Arena che lo stavano seguendo. 
Senza badare al dettaglio, il mandato di cattura internazionale a suo carico, è andato a protestare. Indispettito. A quel punto, controllando i documenti suoi e dei giornalisti, i poliziotti arabi non hanno potuto fare a meno di notare che quello che avevano davanti era un ricercato. Adesso resta da vedere come finirà la richiesta di estradizione. 
Fra Italia ed Emirati esiste un pretrattato che il nostro Paese aveva sottoscritto nel 2015, ma che richiedeva dei correttivi poiché nello stato sul Golfo è in vigore la pena di morte e dunque servirebbe la garanzia di una commutazione della pena capitale in pena detentiva per detenuti da estradare verso il Paese mediorientale. 
Il giudice di Dubai ha in un primo momento confermato l’arresto per due mesi, un tempo considerato sufficiente per esaminare la richiesta arrivata dalle toghe romane: il termine scadeva a inizio gennaio. Se non fosse che il ricercato ha chiesto e ottenuto di essere liberato dietro cauzione. L’istanza è stata presentata dal suo avvocato, Nicola Madia, e oltre al pagamento di una somma di denaro, prevede il trattenimento del passaporto. Non potrà scappare il cognato di Fini, probabilmente. Intanto Giancarlo, che adesso ha scaricato anche la compagna Elisabetta, ha potuto trascorrere il suo Natale a Dubai senza dover patire dietro alle inferriate di una cella. 
E chissà non accada lo stesso per la prossima Pasqua e chissà per quanto ancora. Alla faccia del mandato e del processo. 

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Si è già condannato da solo 
Ci fu un tempo in cui Gianfranco Fini, il nostro livido Giscard d’Estaing della bassa padana, godeva d’una fascinazione irresistibile. La sua attrattiva era trasversale. 
Oltre alla destra antiberlusconiana e agl’imprenditori illuminati c’era per dire perfino Lidia Ravera, sinistra militante, che, quando Gianfry s’ergeva a presidente della Camera, provava incanto; e lo ritraeva come una bellezza di secondo sguardo. Di quelle che lì per lì non ti dicono nulla, ma, ad osservarlo meglio, be’, «una bottarella gliela darei», scriveva «nel disordine estetico del Parlamento, tra pancette sedentarie e bocche sguaiate, la sua compostezza pensosa è elegante. Se fosse una donna Gianfranco Fini sarebbe una casalinga ispirata. Di quelle che, quando c’è da fare un po’ di pulizia lo capiscono prima degli altri. E buttano tutto per aria...». Che, infatti, cara Livia, poi s’è visto. «Buttare per aria» 
è un’immagine pertinente. Il fatto che oggi la Procura di Roma per Fini e i suoi familiari invochi il processo per il reato di riciclaggio, peculato, evasione fiscale ed altre amenità in merito alla leggendaria casa di Montecarlo, be’, rende l’idea di quanto velocemente una luminosa carriera politica possa essere risucchiata nel buco nero d’una reputazione distrutta. 
Non occorre, oggi, infierire sulla cupa sorte di Fini. Il quale non senza ragione continua a darsi pubblicamente del «coglione» mentre qualcuno l’ha visto vagolare, di notte, con barba lunga e secchio della spazzatura in mano, inseguendo con lo sguardo disperato d’un personaggio di Emile Zola la grandezza del passato. Ci fu un tempo in cui Fini, come un Mariotto Segni qualsiasi, aveva l’Italia in mano. Bastava aspettare, Gianfry. Senza lasciarsi scivolare nel gorgo del proprio ego. Socialmente di classe media (figlio di un benzinaio bolognese socialdemocratico ma ex XMas), politicamente il ragazzo era nato con la camicia. Camicia nera, intendo. Non capita tutti i giorni di accendersi di passione ideologica soltanto per un film pro Vietnam di John Wayne, Berretti verdi. O di esser benedetti, tra mille militanti mugugnanti, dal capo assoluto dell’Msi Giorgio Almirante che volle eleggere il lungagnone silenzioso e fresco di laurea in pedagogia suo delfino, dal letto di morte. Non capita spesso neppure d’esser sdoganati da Tangentopoli e dal politico nascente Berlusconi; il quale trascinò Fini prima alle soglie del Campidoglio (si dice che Gianfry abbia frenato per evitare di smazzarsi sullo scranno di sindaco di Roma) e poi gli schiuse le porte del Parlamento e delle più alte cariche istituzionali, ministro degli Esteri, vicepremier, Presidente della Camera molto dotato nell’eloquio e nella playstation, meno nella fattura legislativa. 
Non capita sovente, insomma, di essere predestinato alla guida di una destra moderata, più che per meriti tuoi perché in giro non abbondano giganti del pensiero. Ma la biografia di Gianfry è già stata abbondantemente arata. La svolta di Fiuggi e la nascita di Alleanza Nazionale e lo scazzo con i fascisti duri e puri (che, comunque, sono rimasti con lui finché c’era convenienza). Lo “scandalo della caffettiera” con gli amici di sempre Matteoli, La Russa e Gasparri seriamente preoccupati per la cattiva influenza di Stefania Prestigiacomo che aveva spinto Gianfry verso ineffabili aperture ai gay, al fine vita e alle droghe. Tutto condivisibile. 
Per un pannelliano, o un liberal dell’Alabama, meno per il leader dei postfascisti. Da lì, la rottura con Berlusconi col famoso «Che fai mi cacci?»; e la fondazione di Futuro e Libertà, roba da 0,4% grazie all’abbraccio mortale di Monti e Casini; e il matrimonio con Elisabetta Tulliani e famiglia, l’indecifrabile Rat Pack della politica italiana. Dell’ultimo Fini si dice un gran male, compresa la gestione dittatoriale del partito, il piazzare i suoi in qualunque interstizio di potere, gli infiniti errori strategici (l’esaltazione a fasi alterne del fascismo e del maggioritario, la pretesa di dimissioni di Tremonti...). Perfino la mancanza di pietas con i vecchi commilitoni. Chiedere, a questo proposito, a Guido Paglia, ex direttore della Comunicazione Rai che si rifiutò di firmare contratti per la società di produzione della madre della Tulliani. Fini e i suoi, dilettanti del potere, lo esercitarono nel peggiore dei modi possibili. 
Eppure è stato europeista per chi ha a cuore il concetto di Europa -; ha avuto dei sani sussulti morali (dai lui stesso in seguito disattesi) prospettando una bell’idea di democrazia; e credendosi un piccolo Dio è caduto nel peccato più veniale degli dei, la gnocca. E si è circondato di yesmen che ne hanno assecondato la protervia. Fini non è stato né più né meno d’un italiano medio col miraggio dello statista. Ci ha delusi tutti. Ma ha soprattutto ha deluso se stesso. Al di là del coté giudiziario, credo questa sia la condanna peggiore... 
Francesco Specchia