il Giornale, 24 gennaio 2018
Enrico Robusti: «Salsicce e culatello. I miei ritratti raccontano il sapore della vita»
Il più balzachiano dei pittori, Enrico Robusti: pittore narratore di una commedia umana che a ben guardare ci riguarda tutti, artista espressionista nella forma ed esistenzialista nel contenuto, generosamente figurativo e pertanto snobbato dalle beghine dell’arte ufficiale (convinte di essere moderne perché allineate all’iconoclastia come certi vescovi bizantini dell’ottavo secolo, o al minimalismo come certi critici inglesi degli anni Sessanta, ossia dello scorso millennio). I suoi quadri, ognuno dei quali racchiude un racconto se non un romanzo, attraggono intellettuali amanti al contempo dell’arte e della letteratura come Vittorio Sgarbi ed Edoardo Camurri. Piacquero perfino a Federico Zeri, conosciuto a Parma e frequentato a Mentana, che di sicuro non era un patito del contemporaneo: «Fu colpito dal modo che avevo di impaginare i ritratti, dall’ambientazione funzionale alla definizione del personaggio». La pittura di Robusti è tragicomica e iperproteica, spesso ambientata in cucine o sale da pranzo zeppe di salumi cotti e crudi tipici della sua Emilia (ho evocato Balzac ma potrei citare anche Rabelais o il Boccaccio del favoloso paese di Bengodi o il Marco Ferreri della Grande abbuffata...). I vegani sono invitati a lasciar perdere, tutti gli altri devono affrettarsi a conoscere un’arte che ha il sapore della vita.
«La pittura coi suoi ritratti dice chi siamo noi europei, in cosa ci distinguiamo dalle altre civiltà» ha dichiarato il regista Aleksandr Sokurov. Tu che sei, fra le altre cose, un esperto ritrattista, ti ritieni un milite della civiltà europea?
«Ovvio che il ritratto divenga col tempo una fonte storica ineguagliabile, dalla quale attingere un’infinità di informazioni. Un ritratto di Van Dyck è una finestra aperta sul Seicento. Che idea avremmo del nostro passato senza i ritratti che ci forniscono l’immagine dettagliata di acconciature, vestiti e gesti dei nostri antenati? Che idea avremmo dei monarchi, dei papi, dei condottieri, dei santi? Per fortuna l’importantissimo genere pittorico del ritratto ha continuato, sebbene con alterne fortune, a esistere sino a noi. Credo dunque che i ritrattisti di oggi debbano essere testimoni del loro presente: sono contrario che si dipinga alla maniera di».
Alla maniera di Caravaggio, di solito.
«Sì, sono contrario a resuscitare caravaggismi o altre atmosfere che non ci appartengono. L’illuminazione è cambiata, non posso pensare che oggi un ritrattista immagini il suo soggetto illuminato dalla flebile luce di una candela. O che non tenga conto degli accessori che contraddistinguono il nostro presente e che sono di fondamentale importanza per definire il tipo di società, le urgenze esistenziali in cui la persona da ritrarre è calata. Chi commissiona un ritratto vuole essere ricordato dagli eredi con elementi che ne definiscano la psicologia, ma anche il censo, il successo, il ruolo. Realizzando questo desiderio credo di assolvere bene il mio compito, di essere, come dici tu, milite della civiltà europea».
Uno dei tuoi temi è il trascorrere del tempo, l’invecchiamento, la decadenza fisica. L’arte è un farmaco di immortalità?
«Accolgo con accorato stupore, quasi incredulo, l’ineluttabile. Non so se l’arte è un farmaco di immortalità: niente è immortale, tutto passa. Ma di una cosa sono certo: il mestiere del dipingere mi fa sentire vivo».
Si può ancora parlare di arte contemporanea italiana ossia di un’arte riconoscibilmente tale? Te lo chiedo perché tu appari molto riconoscibilmente padano, anzi emiliano...
«Sì, i miei quadri sono riconoscibili al primo sguardo. Sono un frammento di storia raccontato con una cifra che corrisponde all’urgenza del mio pensiero. Ecco allora scene di mangiatori voraci riuniti intorno a tavole imbandite di cotechini, ecco cucine dove assistiamo a resurrezioni della carne in forma di polli alla cacciatora e salsicce, ecco affettazioni liturgiche di culatelli, ecco sesso, labbra, vizi, abbondanti scollature... La mia pittura è saldamente attaccata al territorio, al mondo padano, al ricordo dei racconti che si facevano in casa, alle colorite espressioni dialettali. Il dialetto, le zolle, i soggetti che affollano le mie scene sono elementi di un’esaltazione, di una festa del vivere, di una sorta di vortice che deforma i volti e dispone i corpi in prospettive inaspettate».
Un teatro.
«Un teatro i cui personaggi alla fine sono tutti dei perdenti, sono inadeguati, fragili, stanno per essere travolti. Ma continuano a vivere, a ridere, a scavarsi piccole tane di felicità».
Tommaso Labranca buonanima chiamava «rovesciasedie» gli innumerevoli epigoni di Duchamp che le accademie sfornano ogni anno. Tu sei un autodidatta: questo ti ha salvato dall’indottrinamento antifigurativo?
«Kiefer dice che l’orinatoio di Duchamp ha avuto grandi meriti, ha messo in crisi un certo tipo di retorico andazzo e ha promosso una concettualità per certi versi utile. Ma poi avvisa che bisogna stare molto attenti a girare, a spostare, a cambiare posizione all’orinatoio perché si corre il rischio che esso ritorni ad essere un semplice orinatoio. Sì, credo che la mia laurea in giurisprudenza alla fine sia servita a qualcosa».
Chiedo a tutti gli artisti se sono per «l’art pour l’art» o se l’arte deve prendere parte. Il tuo ultimo grande lavoro per il Museo della Follia, sei pannelli sul degrado morale dell’Occidente, sembra una risposta. O mi sbaglio?
«Siamo di fronte a un Occidente vulnerabile, minacciato e inconsapevole, decaduto nei valori, nel tessuto sociale ed economico. Un Occidente impreparato al peggio. Il mio lavoro per il Museo della Follia, appena inaugurato a Napoli, rappresenta un grande locale dove gli avventori se la spassano tra balli e bevute, ignari del fatto che il bar si è trasformato in una barca in balìa del mare in tempesta. Sulla prua, come polena, ho dipinto un cervello: è il cervello della civiltà occidentale chiamata a resistere, a dare un segno».
Qual è la tua opera che immagini destinata a durare di più?
«Quella che recita nel titolo: Oh Signore! Ora che la gioventù non c’è più, ora che non ho più latte, mi abbandono a questo pianto sincero. In una cucina una giovane è riversa sul tavolo, morta, un’anziana sta asciugando il latte caduto per terra, una massaia prega abbandonandosi a un pianto in realtà dovuto al taglio delle cipolle. Niente corrisponde al titolo, siamo al teatro dell’assurdo. Questo quadro vuole parlare di un bilancio esistenziale. Succede che un bel giorno ci accorgiamo di essere capitati su questa terra e in seguito, con sorpresa, e mai pronti, che la dobbiamo lasciare. E in mezzo ci sono i riti di passaggio, le ricorrenze, lo sforzo costante di dare un senso alla nostra vita appellandoci alla morale, alla giustizia, alla fede».
Lo scrittore del presente o del passato sulle cui copertine, con i tuoi quadri, vorresti essere.
«Visti i temi che tratto mi piacerebbe illustrare la copertina di qualche riedizione dell’Artusi, oppure Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne».
Se c’è una cosa che odio sono i quadri intitolati «Senza titolo» o, peggio ancora, «Untitled», con i quali molti artisti ci fanno sapere di non avere idee. In te invece il titolo è componente essenziale dell’opera, anzi ne è all’origine. Mi spieghi il meccanismo?
«Il titolo è la mia stella polare. Ho sempre detto che la mia prima preoccupazione è quella di raccontare delle storie. In questo il mio lavoro mi avvicina più a uno scrittore che a un pittore e proprio come uno scrittore prendo appunti. Quando durante la giornata vengo colpito da un fatto, da una frase, apro il taccuino che porto sempre con me. Non tutti gli appunti diventano quadri ma se su quel fatto, o su quella frase, inciampo ancora, ecco che inizio a dipingere».