la Repubblica, 24 gennaio 2018
Così ho scoperto che siamo scimmie dal volto umano
Stento a credere che sia passato mezzo secolo dalla prima edizione de La scimmia nuda. Trovo ancora più difficile credere di essere ancora qui a novant’anni a godermi le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario del libro. Cos’ha questo libro per aver suscitato una reazione così forte? Prima di tutto all’epoca venne considerato scandaloso, e con i libri un po’ di sfrontatezza è di grande aiuto. Per me non era affatto scandaloso.
Stavo solo raccontando la verità sugli esseri umani così come la vedevo. Dato che come zoologo avevo passato anni a studiare il comportamento di altri animali, mi mancava poco per occuparmi del comportamento di quella specie di insolito primate che è l’Homo sapiens. Decisi allora di concentrarmi sugli aspetti del comportamento che abbiamo in comune con gli altri animali. Per enfatizzare il mio approccio zoologico ho dato alla nostra specie un nome nuovo: il tipo di denominazione che avrebbe scelto uno zoologo atterrato da un altro mondo per studiare le numerose forme di vita su questo piccolo pianeta.
Da questo punto di partenza mi sono prefisso di raccontare la cruda verità, come la vedevo io, sulle abitudini di questo animale di incredibile fortuna. Alcuni recensori dissero che era degradante parlare degli uomini come di animali, ma per me si trattava di elevare l’animale umano al livello delle altre specie a cui tenevo tanto. Da bambino durante la seconda guerra mondiale, avevo avuto modo di osservare con disappunto gli esseri umani adulti ossessionati dall’uccidersi a vicenda. In un tema a scuola descrissi gli esseri umani come “scimmie dal cervello malato”. Come via di fuga dall’orrore della cosiddetta civiltà, ho rivolto la mia attenzione alle altre specie animali: più affascinato da rospi, serpenti e volpi che dagli uomini con le loro armi e bombe. È stata proprio la guerra a farmi diventare uno zoologo, e ci sono voluti anni per farmi accettare che tutto considerato gli esseri umani possiedono qualche qualità interessante che merita di essere studiata. Quando non si torturano, non si massacrano o non si fanno paura l’un l’altro, anche gli uomini hanno infatti caratteri animali piuttosto emozionanti. Per il comportamento sessuale sono unici, per l’accudimento dei cuccioli non sono secondi a nessuno e le strategie nel gioco superano di gran lunga quelle osservate in qualsiasi altra specie del regno animale: così cominciai a provare simpatia per il genere umano.
Dai miei primissimi studi sui pesci ero passato agli uccelli e poi ai mammiferi per procedere a una lunga ricerca sugli scimpanzé. La mossa successiva non poteva che condurmi verso gli esseri umani.
Quando il libro uscì nell’ottobre 1967 (l’anno dopo in Italia, presso Bompiani, ndr) mi ritrovai sotto attacco da tre punti diversi. Il primo arrivò dal mondo accademico, che lamentava la mancanza di riferimenti bibliografici, note a piè di pagina e anche dell’indice. Tutte omissioni calcolate. Volevo rivolgermi a un pubblico ampio e non sfoggiare la mia erudizione per stupire gli altri accademici. Partecipavo da anni al gioco degli accademici e mi ero stancato. Io volevo solo raccontare alle persone come vedevo la specie umana, e per questo scrissi nel linguaggio più semplice, come se stessi chiacchierando con qualcuno invece di tenere una lezione. E per questo a tutt’oggi non chiedo scusa.
Il secondo attacco arrivò da chi sosteneva che il mio libro fosse un insulto alla religione. Considerare l’uomo alla stregua di una scimmia eretta invece che un angelo caduto costituiva un grave oltraggio. Una volta mi ritrovai in televisione a difendere il libro con un vescovo che mi chiese se pensavo che l’essere umano possedesse un’anima. Avendo notato che i politici subdoli rispondono sempre a una domanda difficile con un’ altra domanda, gli chiesi se lui pensava che gli scimpanzé avessero un’anima. La domanda l’aveva turbato, perché se avesse detto che le scimmie possiedono un’anima avrebbe fatto arrabbiare i suoi sostenitori più tradizionalisti, che consideravano tutti gli animali, come ci dice la Bibbia, «bestie brute senza discernimento». D’altra parte, se avesse detto che le scimmie non possiedono un’anima, avrebbe fatto arrabbiare quelli del suo gregge che erano devoti agli animali. Così si trovava di fronte a un dilemma. Ma non si diventa vescovi senza acquisire qualche alta capacità verbale diplomatica, così dopo una lunga pausa replicò che secondo lui gli scimpanzé possiedono un’anima molto piccola. Io replicai dicendo che in quel caso ritenevo che l’uomo fosse un animale molto grande.
La realtà era che non volevo essere sviato nel dibattito verso le convinzioni religiose. Il mio libro parlava dei modi di comportarsi delle persone, del modo in cui agiscono, non di quello che pensano. Nel testo ho descritto il tipo di attività condotte dagli uomini religiosi e ho spiegato il loro valore per il gruppo. Ma questo non impedì ai più zelanti di perseguitarmi.
Il terzo attacco venne da chi aveva percepito un’invasione scortese del loro territorio professionale. Io ero uno zoologo e non avevo diritto di irrompere nei mondi dell’antropologia, della psicologia e della sociologia. Al tempo in cui scrivevo, negli anni sessanta, l’assunto principale di questi studi era: qualsiasi cosa gli esseri umani facciano è un comportamento appreso, che non ha nulla a che vedere con i nostri antenati e il nostro patrimonio genetico. E lì arrivavo io a dichiarare che i nostri geni non solo influenzano il colore dei nostri occhi e altre nostre caratteristiche anatomiche, ma giocano una parte importante anche nel determinare come ci comportiamo. Questo punto per gli studiosi dell’epoca era scandaloso. Ma se, come me, avessero studiato il comportamento di un’ampia varietà di specie, avrebbero riconosciuto che ogni animale beneficia di schemi di comportamento ereditati, e per questo non vedevo alcuna ragione per cui gli esseri umani dovessero funzionare diversamente. Certo noi umani siamo molto adattabili e creativi se paragonati ad altre specie, ma anche queste qualità sono ereditarie. È un’estensione della giocosità dell’infanzia che condividiamo con altri animali ma che solo noi prolunghiamo nella vita adulta durante la quale il gioco diventa qualcosa di più serio, al quale diamo nomi nuovi, come creatività artistica o inventività scientifica.
Dal giorno in cui La scimmia nuda è stato pubblicato, ho osservato in un silenzio divertito il modo in cui l’idea dell’influenza dei fattori genetici sul comportamento umano è stata sempre più accettata nel mondo scientifico.
Oggi è ampiamente riconosciuto che noi siamo programmati alla nascita da una serie di suggerimenti genetici su come comportarci se vogliamo goderci a pieno la vita. Possiamo essere educati a scartare da questi sentieri suggeriti, ma così facendo rischiamo di incorrere in un’ampia gamma di frustrazioni e disturbi mentali, perché i nuovi percorsi di condotta non si adattano alla personalità biologica della specie.
Avrete notato che ho usato l’espressione “suggerimenti genetici” e non “istruzioni genetiche”. È perché queste influenze non sono rigide e possiamo leggermente modificarle in un senso o nell’altro senza provocare troppi danni. È solo quando deviamo decisamente dai nostri antichi schemi di comportamento che cominciano i guai. Scrivendo La scimmia nuda ho tentato di dire: questo è il modo in cui gli esseri umani evolvono e queste sono le nostre qualità naturali, animali.
Per me non è un messaggio degradante: è al contrario liberatorio e, per quanto mi riguarda, mi ha consentito di vivere la mia lunga vita senza sprecarne troppa in attività aberranti che sono estranee alla natura umana.
Giunti Editore S.p.A. – Bompiani. Traduzione di Andrea Tramontana