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 2018  gennaio 24 Mercoledì calendario

Appunti su Spotify

SPOTIFY: La piattaforma di musica in streaming è nata in Svezia nel 2008. Oggi conta settanta milioni di abbonati a pagamento in tutto il mondo. La concorrenza è agguerrita (Apple Music, Amazon Prime, Google Play, Deezer, Tidal, TIMmusic da noi) ma Spotify resta la più nota. È un simbolo. Proprio come iTunes di Apple è la più riconosciuta per il download.

STREAMING: L’ascolto di un contenuto da remoto, che viene inviato nel momento della richiesta. È il modello dell’accesso a un catalogo musicale sconfinato, in cambio di un abbonamento: il costo medio è di dieci euro al mese. Solo Spotify dà la possibilità di accedere alla piattaforma gratuitamente, ascoltando pubblicità ogni tanto, come succede in altri paesi con Pandora.

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ATTESA A WALL STREET PER IL COLOSSO SPOTIFY – MARCO VALSANIA, IL SOLE 24 ORE 28/12/2017 –

Promette di essere jl collocamento azionario dell’anno prossimo a Wall Street per più d’una ragione. La prima tutta di grandi numeri che fanno gola all’alta finanza a caccia di successi mentre il mercato continua a correre: rinvigorisce il movimento verso gli initial public offerings solo per il fatto di vedere nel ruolo di protagonista un colosso di Internet - il leader dello streaming di musica Spotify AB - la cui valutazione è cresciuta a dismisura, da otto fino oggi a sfiorare i 20 miliardi di dollari. Segnale di buon auspicio per futuri, potenziali e ricchi Ipo tech: da Airbnb, forte dei suoi 31 miliardi, a Uber, tuttora stimata 68 miliardi nonostante gli scandali. In lizza per un sbarco nel 2018 sono anche Lyft e Dropbox. La seconda ragione del conto alla rovescia per Spotify riguarda invece la rottura delle convenzioni di quella stessa alta finanza, che potrebbe stimolare altri a seguirne l’esempio: la società andrà in Borsa seguendo la strada insolita, per un gruppo di simile dimensioni, del “direct listing” agli investitori. Nessuna nuova azione emessa e nessuna raccolta di fondi tra banche sottoscrittrice, tagliate fuori dal processo.

Gli Ipo hanno già marciato nella seconda meta del 1017, riscattandosi dai timori generati da alcuni debutti turbolenti - Snap e BlueApron - grazie alla successione di record degli indici di Borsa. «Le valutazioni sono ai massimi e forniscono un quadro incoraggiante per i collocamenti - ha detto Nelson Griggs, direttore generale del Nasdaq - C’è senso di urgenza tra le aziende per avvantaggiarsi dell’opportunità». Alla fine ben 14 “unicorni”, le società valutate oltre un miliardo, hanno debuttato quest’anno sui mercati globali contro otto nel 2016, per la maggior parte su piazze statunitensi. E la coda per quotarsi dovrebbe però presto coinvolgere anche società di minori dimensioni e anche molti gruppi stranieri: da gennaio a oggi un quarto degli Ipo negli Stati Uniti è giunto dall’estero. Abbastanza da intensificare la concorrenza con i mercati europei, che nell’ultimo anno hanno avuto la meglio. 

Gli ostacoli sul cammino della svedese Spotify - che per lo sbarco ha come target la primavera, marzo o aprile - si sono ormai dissolti: la Sec, l’autorità mobiliare americana, si appresta approvare la richiesta del particolare collocamento. Spotify ha senz’altro i numeri per diventare uno dei debutti più eclatanti tra le società tech di questi anni: una speciale classifica guidata da Alibaba, valutato quasi 170 miliardi allo sbarco nel 2014, seguito da Facebook, partito da 81 miliardi due anni prima, e JD.com con circa 26 miliardi. Spotify sarebbe a parimerito con Snap e davanti a Twitter.

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SPOTIFY HA RAGGUINTO 70 MILIONI DI ABBONATI – LASTAMPA.IT 8/1/2018 –

Spotify dichiara di aver raggiunto quota 70 milioni di abbonati a pagamento, mentre prepara lo sbarco in Borsa a breve. Si tratta di un salto da 10 milioni di abbonati rispetto allo scorso luglio. Gli utenti totali dell’app sono ancora 140 milioni. Il suo principale concorrente Apple Music, in confronto, ha registrato 30 milioni di abbonati al 30 settembre scorso anche se è stato lanciato nel 2015, contro i quasi 10 anni di Spotify.

L’annuncio sul numero di abbonati arriva dopo che, secondo la stampa statunitense, il gruppo ha di recente depositato i documenti all’ente di regolamentazione della Borsa americana, la Sec, in vista di un ingresso a New York in aprile o marzo. La scelta sarebbe quella di una quotazione diretta piuttosto che un’Ipo tradizionale. Sempre secondo la stampa americana, la valutazione di mercato di Spotify sarebbe di circa 20 miliardi di euro. 


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SPOTIFY A RITMO DI RECORD: 10 MILIONI DI ISCRITTI OGNI SEMESTRE – DATAMANAGER.IT 9/1/2018 – 
Non era semplice eppure ci sta riuscendo. Spotify, nel corso degli anni, sta mantenendo un tasso di crescita omogeneo e continuo. Nei giorni scorsi la compagnia ha comunicato di aver raggiunto la cifra di 70 milioni di clienti a livello globale, permettendo così di fare un paio di ragionamenti sulla velocità di acquisizione di nuovi iscritti. Prima del 4 gennaio, l’ultimo dato ufficiale era quello di luglio, quando via Twitter il team aveva ufficializzato la soglia dei 60 milioni di sottoscrizioni; in precedenza, all’inizio di marzo, i membri erano 50 milioni. questo vuol dire che in blocchi di quattro mesi la piattaforma ha vissuto un aumento in media del 17%-20%, che prosegue ancora oggi. Se volessimo andare più indietro, sino alla metà di settembre 2016, il tasso era anche superiore, pari al 25% su base semestrale, capace di toccare picchi del 33% poco più di un anno fa (da marzo 2016 a settembre 2016).

Insomma, il trend è in evidente calo (si passa dal +33 al +17 odierno) ma costante. Più che raggiungere nuovi utenti paganti, pare che l’obiettivo sia convertire chi usufruisce del servizio in modalità free al canone mensile, il che vorrebbe dire ottenere almeno 10 milioni di utilizzatori ogni 5-6 mesi. Stando infatti alle informazioni recenti, circa l’80% di chi bazzica sull’app per smartphone, tablet o in modalità desktop, lo fa sfruttando il catalogo in maniera gratuita, sorbendosi pubblicità e sponsor vari. L’obiettivo di spostare la bilancia dall’altra parte è difficile ma porterebbe a un introito essenziale per le casse dell’azienda. Con soglie del genere difficilmente la concorrenza potrà scalzare Spotify dal primo gradino della classifica dei client musicali più popolari. Prendiamo ad esempio Apple: in assenza di numeri ufficiali, la stima più vicina alla realtà parla di 30 milioni di sottoscrizioni, con una crescita di circa 7 milioni al semestre, in pratica la metà di quanto guadagna la piattaforma regina. 

E il 2018 potrebbe portare nella storia della compagnia anche lo sbarco in Borsa, che secondo gli esperti avverrà tra aprile e maggio, tramite una quotazione diretta e non un’IPO tradizionale.


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IL POST 3/1/2018 – La società Wixen Music Publishing, che gestisce le licenze per le canzoni di circa 200 artisti (compresi Tom Petty, Neil Young, Janis Joplin e Missy Elliott) ha fatto causa per 1,6 miliardi di dollari al servizio di streaming musicale online Spotify. Stando alle informazioni raccolte da Variety, la causa legale è stata depositata in California la settimana scorsa e sostiene che Spotify abbia utilizzato “migliaia di canzoni” senza avere le licenze adeguate per farlo. Il problema riguarda il sistema con cui Spotify identifica i diritti per ogni canzone, necessari per il riconoscimento degli stessi ai compositori e agli artisti. L’azienda aveva avuto in passato problemi simili sia con i gestori delle licenze per le canzoni sia con le grandi etichette discografiche come Warner, Universal e Sony. Una causa analoga era stata risolta lo scorso anno con il pagamento di un accordo da 43 milioni di dollari.

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IL POST 3/1/2018 – Il servizio di musica in streaming Spotify ha presentato la documentazione necessaria per quotarsi in borsa negli Stati Uniti. Secondo le fonti consultate dal sito di news Axios, Spotify ha avviato la procedura alla fine dello scorso dicembre e una sua quotazione è data come molto probabile entro la fine di marzo. La società avrebbe intenzione di quotarsi direttamente, evitando parte delle iniziative finanziarie che vengono di solito attivate in vista di un’offerta pubblica iniziale, con l’assegnazione di quote predeterminate. È delle ultime ore la notizia di una causa legale da 1,6 miliardi di dollari contro Spotify, per come ha gestito le licenze per alcuni artisti, ma non è chiaro quali conseguenze potrà avere sulla futura quotazione in borsa.

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SPOTIFY SI TRASFORMA - LA STAMPA 19/1/2018 –

Il più grande servizio streaming del mondo, Spotify, inizierà da febbraio a offrire podcast di informazione e di approfondimento politico, con l’obiettivo di sottrarre almeno una parte di ascoltatori alla rivale Apple Music, che fornisce molti contenuti di questo tipo. Secondo quanto riportato sul sito ufficiale , già otto compagnie hanno accettato di produrre contenuti giornalistici per questa nuova iniziativa, che prenderà il nome di Spotlight.

Tra i partner che hanno accettato di lavorare per Spotlight troviamo BuzzFeed, Cheddar, Refinery29 e altri, che produrranno dei podcast di notizie (detti “newscast”) creati dai loro giornalisti, Per il momento, questa evoluzione di Spotify sarà testata solo negli Stati Uniti, ma se avesse successo, e Spotlight si espandesse al mercato europeo, potrebbe essere una boccata d’ossigeno per le economie di un settore, quello giornalistico, che da tempo si trova in difficoltà. 

Al di là della rivalità con Apple Music, per Spotify si apre anche la possibilità di conquistare una fetta della pubblicità radiofonica, che a oggi vale 18 miliardi di euro. Una mossa che consentirebbe tra l’altro alla società svedese di presentarsi nel migliore dei modi alla imminente quotazione a Wall Street. Nonostante il servizio di streaming abbia rimesso in carreggiata l’intera industria musicale, consentendole di ricominciare a macinare guadagni, Spotify non è infatti ancora in grado di produrre profitti, a causa del costo dei diritti musicali. 

Ospitare dei podcast di notizie e politica, ma più avanti anche sport, cultura e altro, avrebbe sicuramente costi molto inferiori e potrebbe quindi garantire un margine di profitti più alto. Allo stesso tempo, Spotify dovrà guardarsi le spalle dai due colossi che va a stuzzicare: Apple, ma anche YouTube. A quanto pare, infatti, alcuni di questi podcast saranno accompagnati da video e immagini. 


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SPOTIFY: «LA RIVOLUZIONE DELLE CLASSIFICHE È CONTRO IL NUOVO CHE AVANZA». LUCA DONDONI, LA STAMPA 27/12/2017 –

Nella prima settimana del 2018 per le classiche musicali del nostro Paese tutto cambia: non varranno più gli ascolti in streaming gratuito ma solo quelli dei clienti premium e cioè di chi paga un abbonamento. Per Veronica Diquattro, la giovane manager di Spotify, i conti non tornano. La incontriamo a pranzo, e il viso dolce e i modi gentili lasciano trasparire il dispiacere per un’importante, quanto rivoluzionaria decisione dell’industria discografica italiana. Poche settimane fa il CeO della FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana) Enzo Mazza ha comunicato gli ultimi dati sullo sviluppo dell’innovazione nel sistema musicale italiano con riferimento al mondo delle classifiche, certificazioni Top of the Music, e per Spotify non sono state buone notizie.

«È una scelta sbagliata - dice subito la Diquattro -, non fotografa l’andamento reale del consumo musicale italiano, non rappresenta le abitudini del mercato ed è destinata a cancellare dalle classifiche tutta una serie di artisti che si sono fatti conoscere solo grazie allo stream gratuito». 

A chi si riferisce?  

«Le faccio subito un nome: Coez. La sua canzone La musica non c’è è tutt’ora una hit, un numero importante di fan riempie i palazzetti e la stampa lo riconosce come artista di primo livello. Ricordo perfettamente quando nessuna tra le grandi radio, ma nemmeno delle piccole, suonava un suo pezzo. A parte Coez lo scenario che si prefigura è quello di classifiche basate sul mainstream totalmente miopi e soprattutto irrilevanti. Che è ancora peggio».  

Lei sottolinea il problema facendo leva sui ragazzini che non spendono un euro per comprare musica e saltano su e giù dalle playlist sopportando gli spot pubblicitari che fate ascoltare ai clienti «non premium».  

«E quei ragazzi, come si sa, oggi ascoltano solo rap e trap che nelle nostre playlist ospitiamo e promuoviamo. Gué Pequeno, Ghali, Sfera e Basta, lo stesso Coez o altri ancora sono diventati delle star grazie allo streaming». 

Ormai però la decisione è presa e fra pochi giorni sarà così anche se immaginiamo che lei abbia delle proposte per una revisione a breve termine.  

«Assolutamente, una su tutte è quella di trovare il peso giusto, così come accade in molti Paesi all’estero, fra ascolti (stream) free e pay. Se si calcola la percentuale giusta nessuno sarebbe penalizzato e anche le centinaia di artisti che si affacciano alla ribalta dello streaming potrebbero avere una chance». 

Ricordiamo che 130 stream di un brano valgono un download e quindi l’acquisto di un solo singolo, ma come funziona negli altri Paesi?  

«In Europa l’Italia sarà l’unica ad operare così come hanno deciso i discografici perché Germania, Austria e Svizzera considerano anche loro solo la parte a pagamento ma le classifiche sono considerate a valore e non a unità. Mi spiego: lì un artista va in classifica a seconda di quanti soldi ha incassato dalla vendita di un determinato disco e non da quante volte viene scaricato o ascoltato in stream». 

Secondo gli ultimi dati Spotify ha 140 milioni di utenti attivi di cui 60 milioni sono Premium. Solo nelle scorso anno avete aggiunto 20 milioni di utenti al vostro servizio e a fronte di questi numeri le case discografiche italiane hanno optato per la scelta “no free”. Il famigerato «value gap», la percentuale in denaro che voi streamers (oltre a Spotify ricordiamo anche YouTube, Apple Music o Deezer) pagate, in diritti, agli artisti è troppo bassa.  

«Su questo stiamo ragionando, ma finora sono accordi siglati commercialmente proprio con i discografici. Sappiamo che lo scoglio dei diritti è importante e giustamente sta a cuore di tutti. Anche noi, che non siamo i discografici degli artisti, spesso li promuoviamo con billboard, affissioni, campagne pubblicitarie e altro. Cos’è questo se non un modo per aiutare la discografia ad andare sempre meglio. Noi siamo per la musica ma le prossime classifiche vanno in un’altra direzione». 


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JAIME D’ALESSANDRO, ROBINSON 28/1 –

Spotify sbarca in Borsa dopo aver cambiato il nostro modo di metterci in ascolto (e aver costretto i big, da Apple a Amazon, all’inseguimento). Chi è Daniel Ek, il fondatore che fu scartato da Google. E perché da oggi nulla sarà più come prima –
Il re dello streaming, dall’alto dei sui trentaquattro anni, dispensa pillole di saggezza via Twitter: “Non c’è nessuno fra quelli che ammiro che non sia mosso dall’insicurezza”. O ancora: “Non si tratta di combattere il vecchio, ma di costruire il nuovo”. Daniel Ek, “ padre” di Spotify oltre che di due bambini, è uno schivo ragazzone svedese. Cresciuto nei sobborghi di Stoccolma, un anno fa è asceso però a “uomo più potente del business discografico” per la rivista Billboard. Ma già nel 2016 negli Stati Uniti la “ musica liquida” valeva il cinquantuno per cento del consumo di brani e album e Spotify dominava il settore. Il contagio di libri, film, serie tv era avvenuto ancor prima: addio carta, dvd e vinile, si possiede ( o si “ scarica”, download) sempre di meno e si condivide, in streaming, sempre di più. A partire dal 2008 l’idea stessa di palinsesto ha cominciato a essere messa in discussione quasi ovunque. Di questa rivoluzione, Ek è la mente più che il volto: le interviste rilasciate si contano sulle dita di una mano. In futuro dovrà concedersi di più. La sua azienda, racconta l’Economist, si prepara a sbarcare in borsa con una strana Ipo (initial public offering): non passerà per le banche né per gli agenti come di consueto, raccoglierà i fondi direttamente dagli investitori tagliando fuori i grandi nomi della finanza. È la prima volta che capita al New York Stock Exchange che Ek ha preferito al Nasdaq, l’indice dei titoli tecnologici. L’ennesima scelta stravagante.
“Ho sempre fatto cose impossibili”, confessò nel 2012. Quando Google scartò il suo curriculum, si disse: “Mi costruirò un mio motore di ricerca. Non sarà poi così difficile”. E invece era molto difficile. “ Sono abbastanza naïf da pensare che una soluzione verrà sempre fuori, senza comprendere quanto le cose siano a volte complicate”. Eppure Ek è riuscito a cavarsela sempre bene. Spotify è stato il primo servizio di streaming a occupare la scena mondiale. Accusato di uccidere la musica, una crociata guidata da Thom Yorke dei Radiohead che poi ha fatto marcia indietro, ha combattuto e vinto contro Apple: l’ha costretta a cambiare agenda e affiancare a iTunes un servizio identico a Spotify chiamato Apple Music. E l’ha trascinata in tribunale per concorrenza sleale. La quota del trenta per cento che pretende da tutte le transazioni sul suo App Store, compresi gli abbonamenti di Spotify, favorirebbe Apple Music che non la paga. La guerra dello streaming, l’hanno chiamata, anche se in realtà va ben oltre. Già il nome tradisce lo scopo dell’impresa: leggenda vuole che Spotify sia una crasi scelta da Ek tra “ spot”, e quindi la pubblicità anima di ogni commercio, e “identify”, gli algoritmi che permettono in base ai brani che ascoltiamo di proporci alternative su misura a getto continuo.
“L’intera industria musicale conta fra i quattordici e i quindici miliardi di dollari in vendite”, ha spiegato Ek. “ Ora guarda alla radio: negli Stati Uniti da sola ha un fatturato di circa sedici miliardi e globalmente è di circa ottanta miliardi. Trasferisci il comportamento della radio all’online e avrai un settore musicale che è molto più grande di quanto sia mai stato. Se poi aggiungi gli abbonamenti si arriva a un’industria da cento o centosessanta miliardi”. Un termine di paragone? Il mercato della pubblicità online, il regno di Google, ha da poco superato i duecento miliardi.
Daniel Ek ha iniziato presto e per caso. A tredici anni passava troppo tempo davanti al pc, come tanti suoi coetanei, ascoltando i Joy Division. Gli chiesero di costruire un sito web e lui domandò l’equivalente di cento euro. La seconda passò a duecento, l’anno dopo la parcella era arrivata a cinquemila. Assunse coetanei che pagava in videogame per allargare le operazioni. Quando i genitori lo videro tornare a casa con un televisore gigantesco si resero conto che aveva preso una deriva interessante: guadagnava già cinquantamila euro al mese. Decisero di cambiare casa per dargli più spazio. A diciotto anni gestiva venticinque persone e a ventitré aveva venduto la sua compagnia Advertigo per circa un milione di euro. Comprò una Ferrari, si gettò nella bella vita, entrò in depressione. Tornò a vivere nei sobborghi vicino ai genitori. “Avevo sempre voluto trovare il mio posto, pensavo che ci sarei riuscito facendo soldi. E invece non avevo idea di come volevo vivere la mia vita”, ha ammesso. Altri a quelle latitudini ci sono passati e non ne sono usciti. Markus Persson, svedese pure lui, dopo aver venduto Minecraft alla Microsoft per due miliardi e mezzo di dollari è entrato in crisi e lì è rimasto, con un patrimonio personale da centinaia di milioni. Daniel Ek invece ha incontrato l’imprenditore Martin Lorentzon, classe 1969, che lo ha raccolto, aiutato e con il quale ha fondato Spotify ormai valutata fra i sedici e i venti miliardi di dollari. Quanto Twitter, ma meno di Netflix che vale cinque volte tanto. Per non parlare di Facebook dell’amico Mark Zuckerberg, che gioca in un altro campionato avendo superato i cinquecento miliardi.
Ma Ek la guerra dello streaming la vuole vincere ed è ancora a metà dell’opera. A dicembre c’è stato lo scambio di azioni col colosso cinese di Tencent, lo stesso di WeChat, aprendo così un varco all’immenso mercato interno di Pechino chiuso ermeticamente all’esterno. Apple ha risposto acquisendo Shazam, che oltre a riconoscere una melodia vende anche biglietti di concerti, mentre YouTube ha fatto sapere di esser in procinto di lanciare un nuovo servizio chiamato Remix per cercare di mettere un piede nello streaming a pagamento. Intanto Spotify è in testa coi suoi centoquaranta milioni di utenti in sessantuno paesi. Settanta milioni di loro pagano 9,99 euro al mese per fruire i trenta milioni di brani senza limiti né pubblicità. È il cinquanta per cento circa degli abbonamenti di questo settore. Apple Music non arriva a un terzo. Ancor più indietro arrancano Amazon, Deezer, Pandora.
“Molte persone conoscono Daniel come uno dei grandi imprenditori europei”, ha scritto Zuckerberg su un ramo del lago di Como. “ Io lo conosco come un grande amico e un padre premuroso”. I promessi sposi Daniel e Sofia, assieme da una vita, si sono uniti in matrimonio a fine agosto del 2016 sulle note di Bruno Mars e alla presenza dell’amico Mark che poi sarebbe arrivato a Roma in visita ufficiale ricevuto come un imperatore d’altri tempi. Il regno del ragazzone di Stoccolma è più piccolo ma progetta di allargarsi. Ha assunto Courtney Holt rubandolo alla Disney dove gestiva i Maker Studios, gigante dei contenuti su YouTube che ha nella sua scuderia svedesi tutt’altro che schivi del calibro di Pewdiepie, per curare la parte video di Spotify. Spotlight, nuova forma di racconto imparentata con gli audio libri in forma visuale, è opera sua. Dal primo febbraio va in scena negli Stati Uniti. E poi, ancora, si parla di dare la possibilità agli artisti di vendere merchandising, dai vestiti al loro make up, facendo diventare il servizio streaming una piattaforma di distribuzione di tutto quel che ruota o potrebbe ruotare attorno alla musica. Spotify spera così di convincere gli scettici che non la sta uccidendo definitivamente ma anzi la vuol far diventare grande. “A volte devi finire più in basso di quanto tu sia mai stato, per alzarti più in alto di quanto non sia mai stato”. Daniel Ek e le sue pillole di saggezza che presto, in borsa, potrebbero diventare perle.

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VITTORIO LINGIARDI, ROBINSON 28/1 –
Musicofilia, la raccolta di racconti di Oliver Sacks su musica e cervello, inizia con una storia tratta da un romanzo di fantascienza di Arthur C. Clarke. Dove i Superni, alieni intelligenti ma insensibili alla musica, si dedicano allo studio di noi umani senza comprendere perché dedichiamo tanto tempo ad ascoltare, eseguire, comporre musica. Una cosa così evanescente e, soprattutto, inutile. Se l’astronave fosse atterrata tra i kaluli di Papua Nuova Guinea, forse i Superni avrebbero avuto qualche elemento in più. Infatti, racconta Steven Feld in un sorprendente trattato di etnomusicologia (Suono e sentimento), i kaluli rielaborano con la musica i flussi sonori della natura e le modulazioni del canto degli uccelli. Da lì nasce il sentimento della comunicazione sonora.
Se mindscapes è un neologismo per evocare l’incontro visivo tra psiche e paesaggio — i luoghi che cerchiamo nel mondo per dare sostanza e immagine a qualcosa che è già in noi — potremmo chiamare soundscapes quei paesaggi sonori che danno forma acustica ai nostri stati mentali. Suoni che, mentre li scopriamo nel mondo, ritroviamo in noi stessi. Teorizzati dal compositore canadese Murray Schäfer, i soundscapes compongono il nostro mondo acustico. Che non è necessariamente artistico o musicale, può essere fatto di voci e di silenzio. Un silenzio che possiamo ascoltare.
Anche se esistono (rari) umani che, come i Superni, forse mancano dell’apparato neurale per apprezzare suoni o melodie, su tutti gli altri la musica esercita un potere enorme. Eccita e deprime, accarezza la memoria e la ferisce, irrita e diverte. Non posso ascoltare l’aria del nodo avviluppato dallaCenerentola senza entusiasmarmi ridendo. Ogni volta che sento Città vuota mi struggo di nostalgia e ammirazione per il capolavoro sonoro e sociale che Mina è stata per il nostro Paese e per la mia adolescenza. E quando sento i preludi di Chopin mi commuovo perché sono entrati nel mio paesaggio sonoro quando ero bambino e mia madre li suonava al piano.
A partire dalla “ straordinaria tenacia della memoria musicale”, i paesaggi sonori dell’infanzia rimangono, dice Sacks “incisi nel cervello”. Non c’è musica senza inconscio e non c’è inconscio senza memoria. William Styron ( Un’oscurità trasparente) racconta che fu un brano della Rapsodia per contralto di Brahms a salvarlo dal suicidio: “ Questo suono, che, come ogni forma di musica, anzi, di piacere, mi aveva lasciato indifferente per mesi e mesi, trafisse il mio cuore come un pugnale, e mi sommerse all’istante una marea impetuosa di ricordi, tutte le gioie che quella casa aveva conosciuto”.
Priva com’è di “significato”, la musica non veicola concetti né formula proposizioni, ma lavora in profondità nella neuropsiche. Scrittura che raggiunge gli analfabeti, visione che tocca i non vedenti, innesca l’immaginazione, s’immerge nella memoria, s’infila nella solitudine. Portando con sé il suo paradosso: lo stesso spartito che evoca il dolore produce, al tempo stesso, la consolazione.
Il bisogno di musica che una volta ci spingeva a costruire artigianali compilation su musicassette, oggi ci vede competenti collezionisti di playlist. L’effetto psichico della musica (la fedeltà della sua compagnia; la capacità, esasperata dagli auricolari, di creare un mondo a parte; la tenuta ermetica della bolla sonora con cui ci avvolge e protegge) è potente fino alla dipendenza. Effetti così importanti non possono che guidare le nostre scelte musicali. Che oggi, grazie alla duttilità pervasiva delle fonti sonore, cerchiamo di governare, essendone talvolta governati.
Ci sono musicofili onnivori e melomani sofisticati, dodecafonici autistici e canzonettari enciclopedici. E fragili allergici: “Non posso ascoltare il jazz”, mi dice un paziente ossessivo, “ è senza contorni, non sai dove va, e per questo mi angoscia”. Per Theodor Reik, psicoanalista austriaco e collaboratore di Freud, le “melodie che scorrono nella mente” possono fornire all’analista indizi che conducono ai segreti della vita emotiva: “la musica che accompagna il nostro pensiero cosciente non è mai accidentale”. È questo il segreto di Spotify e dei suoi milioni di utenti? Il tentativo di costruire il proprio soundscape?L’illusione di governarlo, imprimerlo nella memoria per diffusione ambientale? E il segreto del nostro soundscape saprà difendersi dalla ripetizione e dal facile accesso? Dalla finta confidenza di sottofondi sonori gradevolmente imposti? Corriamo il rischio, nonostante lo streaming sia on demand, di scegliere sempre meno e di ricevere, lisciati dalla comodità, ghirlande prêt- à- porter di ricordi musicali. Se l’ombra dei mindscapes sono i non-luoghi, è possibile che sulla storia personale e collettiva dei nostri soundscapes si allunghi l’ombra di non- musiche. Che proprio nei non-luoghi hanno facile diffusione: sale d’aspetto, lounge bar, ristoranti griffati. E se il vinile fosse una riappropriazione del proprio paesaggio sonoro?Anche quando non suona e si limita ad accompagnarci nel dormiveglia di un ricordo, la musica cura, e talvolta guarisce. Studi scientifici raccontano il lavoro di riparazione neurologica e psichica che la musica promuove nel nostro cervello. I parenti accendono registratori al capezzale di pazienti comatosi per risvegliarli al mondo con le impronte sonore dei ricordi. Future madri appoggiano sorgenti musicali sulle loro pance gravide: ben prima che fiorisca il linguaggio intoneranno cantilene come musiche primordiali dei kaluli. 


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CAMERON CARPENTER, ROBINSON 28/1 –

Ma lo streaming fa bene o fa male alla musica? E sopratutto: lo streaming cambia il nostro approccio con i vari generi, dalla classica al rock? Scusate, si fa per dire, se parlo di me. Perché la carriera di un musicista classico è dura, competitiva, impegnativa. Crescendo, ascolto sempre meno musica, soprattutto musica classica, sia su disco che in concerto. Ma il rapporto più salutare che ho con la musica riguarda l’ingegneria e la produzione più che il consumo. Lo streaming? Per me la musica – soprattutto classica – è un prodotto d’intrattenimento che ha un valore, ne consegue che deve essere venduto a beneficio dell’artista. Nessun servizio di streaming, però, lo fa con la dovuta responsabilità economica. Come non lo fanno le case discografiche che, ormai sull’orlo dell’estinzione, sono del tutto incapaci di contribuire agli artisti il corrispettivo del loro lavoro. ( Al contrario, il terribile sistema di divisione degli introiti applicato da molte etichette – per cui gli artisti sono costretti a riconoscere una percentuale dai proventi dei concerti secondo un sistema pay-to-play – è uno dei molti modi in cui il declino dell’industria ha creato spazio per pratiche tutt’altro che etiche). Questo aiuta a capire perché non uso Spotify (o qualsiasi altro servizio di streaming), anche se non lo rifiuto né lo metto sotto accusa per motivi personali. È semplicemente un prodotto per il quale non ho tempo e del quale non sento la necessità – tantomeno lo prendo seriamente, da musicista professionista, come possibile fonte di reddito.
Se mi capita di spingere il pulsante “ play”, è per ascoltare il country ( George Strait), l’hip- hop ( preferibilmente Jeezy, la vecchia scuola, etc.) o la musica ambient di Brian Eno. Mi capita di orecchiare la Top 40, la techno quando sono in palestra, le canzoni trasmesse in radio, in televisione o in giro. Da ascoltatore mi fido molto delle persone che hanno i miei stessi gusti, gente che non comprerebbe mai un disco di opera o un biglietto per un concerto sinfonico, tantomeno di organo.
La musica è la mia forza, ma la mia vita funziona anche senza, e sono scettico sul fatto che io dipenda psicologicamente o emotivamente da essa. Considero strani quelli che vivono costantemente immersi nella musica – classica soprattutto; l’idea stessa mi infastidisce, provo una sorta di disgusto quando noto questo atteggiamento in altri musicisti. La musica è un lusso, soprattutto la classica, e come tale dovrebbe essere goduta.
Non so quale sia il punto di vista dei colleghi, parlo per me, ma non credo che la crisi dell’industria sia stata causata dallo streaming, dall’assenza di educazione musicale o dai trend dei media. Dire che stanno uccidendo la discografia è sempre più affascinante che sostenere la più banale delle verità: l’industria sta morendo per una serie di circostanze che vanno dal cambiamento culturale all’inarrestabile evoluzione della tecnologia. La morte è sempre e comunque inevitabile, ma il progresso tecnologico è creativo e necessario (per questo l’ho applicata all’organo).
Detto questo, lo stato pietoso in cui versa l’industria del disco è anche peggiorato a causa della mancanza di controllo e di preveggenza, e dalla tendenza da parte dei responsabili del catalogo classico di considerare il nostro lavoro come fondamento intoccabile dell’umanità – un concetto già di per sé elitario. Molta musica classica è bellissima – molta orribile – ma pur sempre di intrattenimento si tratta, oltre che di un lusso. Molti considerano “intrattenimento” una parola sporca, ma arte e intrattenimento non sono in contraddizione; mi piace ascoltare Wagner e Webern come mi piace ascoltare un bel dibattito o assistere a un evento sportivo. Non c’è una visione chiara in materia, e in ogni caso nel momento stesso in cui si discute sulla possibilità di “ morire”, è già troppo tardi.
Il declino della musica classica è insito nella musica classica, poiché essa (quella organistica più di tutte) richiede l’abilità di astrarre, elaborare e confrontare le informazioni emotive e musicali su lunghi periodi. Per me, come musicista e come ascoltatore, questo fa parte del passato, è oneroso, richiede tempo e fatica. È una forma d’arte elitaria, e tutti gli sforzi che il marketing sta facendo per minimizzarlo (excusatio non petita) sono pericolosi e poco convincenti (i giovani intuiscono la contraddizione e la disperazione che sottende, e ragionevolmente si tengono alla larga).
Neanche i social media sono d’aiuto, spesso i miei follower non hanno neanche assistito a un concerto dell’International Touring Organ. La maggior parte dei miei ascoltatori appartiene a generazioni che precedono i social media, che alla fine sono soltanto uno strumento promozionale, ma in senso molto generale poiché si sono rivelati inefficaci nella vendita dei dischi e persino dei biglietti.
Ho costruito e continuo a sviluppare le potenzialità di un organo digitale portatile per rispondere a un imperativo culturale e tecnologico, un traguardo che considero ben più importante dei concerti e della mia stessa musica. È la risposta ai punti di cui sopra, utile se non altro agli organisti – per lo più impreparati a cogliere e tantomeno a sfruttare le soluzioni legate a internet, all’intelligenza artificiale o al blockchain - e a certe istituzioni. La mia rivoluzione tecnologica è l’International Touring Organ, un passo avanti fondamentale per la comunità degli organisti (ideologicamente e tecnicamente) e un percorso che verosimilmente permetterà a me, negli anni a venire, di abbandonare le scene pur restando connesso allo strumento. 

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GIANNI SANTORO, ROBINSON 28/1 –
Nel 2003 con il sesto album Hail to the Thief si chiude il rapporto tra i Radiohead e la casa discografica Emi. Thom Yorke è contento: «Mi piace la gente alla nostra etichetta, ma è arrivato il momento in cui ci si chiede a cosa serva». In Rainbows nel 2007 esce come album digitale senza major, il prezzo lo sceglie il pubblico. «Il piacere perverso di dire fanculo a questo modello di business morente».
Contro Spotify Nel luglio 2013 Yorke decidere di togliere da Spotify la musica solista e quella del suo progetto Atoms For Peace. È guerra contro quello che definisce “l’ultimo respiro della vecchia industria”: «Non fatevi fregare, i nuovi artisti che scoprite su Spotify non saranno pagati. Ma gli azionisti presto faranno i soldi. Con questo modello gli esordienti non ottengono un cavolo».
Esplorare il peer-to-peer Il secondo album solista di Yorke, Tomorrow’s Modern Boxes,nel 2014, viene pubblicato con una soluzione inedita: in formato digitale, diffusa dalla rete specializzata in peer-to-peer BitTorrent, che per l’occasione studia un modello a pagamento (sei dollari). Un esperimento per bypassare intermediari. «Non perfettamente riuscito», dirà poi.
Contro YouTube e Google Non solo Spotify. Yorke si ribella al modo in cui YouTube e Google trattano la musica. «Mettono pubblicità prima di qualsiasi contenuto facendo un sacco di soldi e gli artisti non sono pagati o con cifre ridicole. (...) I fornitori di servizi fanno soldi. Google.YouTube. Fanno pesca a strascico. È come quando i nazisti durante la Seconda guerra mondiale rubavano l’arte agli altri paesi».Contrordine. O forse no Sorpresa. Nel dicembre 2017 diventa disponibile su Spotify anche il catalogo solista di Yorke. Pace fatta? Macché.Dieci giorni dopo rilancia su Twitter la polemica dell’amico Geoff Barrow dei Portishead che chiede sul social network: “Domanda ai musicisti: qualcuno ha mai guadagnato più di 500 sterline tramite Spotify?”. “Non aggiungo altro”, twitta Yorke.


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VALERIO MATTIOLI, ROBINSON 28/1 –

Dapprima fu il download, l’mp3, la scomparsa del supporto fisico. Poi arrivò lo streaming, l’ascolto on demand, l’avvento di giganti come Spotify. Per il mondo musicale — specie quello pop — si è trattato di uno sconvolgimento tale da rimettere in discussione gerarchie intere, a cominciare da quegli aspetti economico-produttivi che vanno dal diritto d’autore alle nuove forme di monopolio. Ma l’irruzione delle nuove ( o nuovissime) tecnologie solleva anche questioni più sottili, ambigue, personali: chiama in causa il modo in cui ascoltiamo musica, rimette in discussione il rapporto che intercorre tra musicista e ascoltatore, attribuisce nuovi valori a una forma di “intrattenimento” che sembra vieppiù minacciata sia da concorrenti altri ( videogiochi, serie tv) sia da un eccesso d’offerta diventato esorbitante. Di questo abbiamo parlato con Franco Fabbri, musicologo ed ex musicista egli stesso ( è stato fondatore e leader degli storici Stormy Six) di cui il Saggiatore ha da poco riportato in libreria L’ascolto tabù — Le musiche nello scontro globale.
Professor Fabbri, posso chiederle in che modo ascolta musica?
«Di solito da file scaricati dalla rete, anche perché per i miei corsi ho bisogno di materiali audio sempre a portata di mano. Lo streaming lo uso poco: diciamo che in molte delle università e dei conservatori in cui insegno le connessioni internet restano abbastanza precarie...».
Non è però un nostalgico del buon vecchio supporto fisico, vinile o cd che sia.
«Non particolarmente. Certo, ammetto che con la progressiva scomparsa del supporto fisico si è persa tutta quell’informazione visiva ( copertine, apparati testuali ecc.) che rendeva i dischi degli oggetti belli da guardare, oltre che ascoltare. Ma è anche vero che oggi tutte quelle informazioni si trovano tranquillamente online».
Eppure l’assenza di un oggetto che la musica “ la contiene” è una delle principali accuse che vengono rivolte all’ascolto moderno: quasi che, in assenza di supporto, non si tratti di un vero ascolto. Si tende a dimenticare come nella storia della musica i supporti fisici siano invenzione tutto sommato recente...
« È vero, per millenni la musica è stata fruita in tutt’altri modi. Però è altrettanto vero che l’avvento della registrazione — e quindi la possibilità di conservare un’esecuzione musicale e di riascoltarla a piacimento — ha portato a enormi cambiamenti in termini sia di circolazione che di percezione dell’ascolto. È da lì che viene il rapporto con la musica a cui siamo tuttora abituati».
In effetti la stessa musica pop moderna è un prodotto della tecnologia: valeva negli anni Cinquanta come nel presente “liquido”.
«Assolutamente. È impossibile per esempio concepire il primissimo rock’n’roll senza le radioline a transistor: era una musica appositamente pensata per essere trasmessa da quel tipo di apparecchi lì, sia dal punto di vista del contenuto che della forma, oltre che della qualità audio. Quale musica sia più in grado di rispondere ai cambiamenti tecnologici di oggi, è però ancora presto per dirlo. In un certo senso, potremmo pensare che l’abbondanza infinita di soluzioni tecnologiche attualmente a disposizione, produca paradossalmente una musica che non sente più bisogno di alcun rapporto con il presente. Non ne sono molto convinto, ma lo vedremo tra qualche anno».
Ha accennato alla qualità; anche questo, è un tema che ricorre negli strali contro la musica dell’era digitale: l’idea cioè che un file non regga il confronto con la vecchia riproduzione analogica. Viene da chiedersi com’è possibile che una musica nata per le radioline sia diventata faccenda da audiofili...
«Io penso che la qualità che è stata ottenuta col file digitale vada più che bene. Non sono un feticista dello sricchiolio della puntina sul vinile, e non credo che l’analogico sia sempre preferibile al digitale. Si tende a dimenticare come qualsiasi registrazione è sempre un tentativo approssimativo — e per sua natura insoddisfacente — di un’esecuzione che in origine era a sua volta di qualità molto superiore. Da ex musicista, posso garantirti che, anche ai tempi del vinile, ogni volta che ascoltavo un nostro disco restavo sempre molto deluso, se pensavo a come quelle musiche avevano suonato in studio».
Spostiamoci sul lato del fruitore. Un effetto vistoso di pratiche come lo streaming e relative playlist, è la sostanziale fine del formato-album; l’ascolto tende a preferire le singole canzoni anziché i dischi interi, il che ci riporta agli albori del pop moderno, quando il formato di riferimento era il 45 giri.
«Questo è un dato di fatto, incoraggiato senz’altro dallo streaming (e ancor prima dal download) ma che deriva anche da nuovi costumi e nuovi stili di vita. Quando alla fine degli anni Sessanta l’album a 33 giri ebbe il sopravvento sul formato- singolo, la musica rivestiva un’enorme importanza per i giovani: era in molti casi il loro passatempo principale, a cui dedicare buona parte del tempo libero. Oggi invece i giovani hanno a disposizione un enorme ventaglio di possibilità: in questo senso, tra social, videogiochi e così via, è senz’altro più facile infilare l’ascolto di un singolo brano, anziché focalizzarsi per quaranta minuti su un album».
E poi ci sono funzioni come lo skip, che sembrano invertire la tradizionale gerarchia tra artista e ascoltatore: decido io cosa ascoltare, dove e quando, indifferentemente dalle intenzioni di chi quelle musiche le ha confezionate. A restare sullo sfondo però è il fantasma dell’algoritmo, che decide per me anche quando sono convinto del contrario...
«E questo produce effetti interessanti, perché il risultato è molto più omogeneo ( nel senso che risponde maggiormente ai gusti del singolo ascoltatore) di quanto per esempio lo sia una normale programmazione radio. Ma credo anche che in futuro queste stesse tecnologie siano destinate a cambiare: che tipo di ascolto verrà da funzioni come l’intelligenza artificiale?».
Non c’è insomma niente da temere dal cosiddetto “ascolto disattento”?
«Questo è da sempre un tabù della ricerca musicologica: l’idea che l’ascolto non consapevole e non strutturato — la musica che percepiamo in sottofondo, per esempio — sia la negazione stessa di un vero rapporto con la musica. Non è così: esistono infinite varietà nel modo in cui ci relazioniamo all’ascolto, da quello più attento a quello più casuale; e molto spesso è proprio da quest’ultimo che può nascere un rapporto con la musica più intimo e duraturo». 

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CARLO MORETTI, ROBINSON 28/1 –Provare a chieder conto a qualcuno dei responsabili dei servizi di streaming di come funzioni l’algoritmo che organizza le loro playlist ha, agli occhi di molti, il profilo di un’impresa impossibile: quasi come riuscire a mettere le mani sui segreti del Santo Graal. Una nebbia di misteri avvolge il meccanismo attraverso il quale, entrando nelle piattaforme musicali, il nostro computer o uno smartphone possono alternativamente animarsi di canzoni notissime o al contrario sconosciute, farci ascoltare artisti famosi o emergenti assoluti, proporci generi musicali di cui ignoravamo l’esistenza. Mistero (quasi) sciolto. Parla Alexander Holland, il Chief content and Product officer di Deezer, il direttore artistico responsabile del prodotto per Deezer, uno dei più noti servizi di streaming francesi, attivo in 185 paesi ( Italia compresa), con 12 milioni di utenti, 43 milioni di brani e 100 milioni di playlist.
Dottor Holland, tutti i sistemi di streaming esistenti utilizzano un algoritmo per organizzare la loro offerta musicale?
«Sì. L’analisi algoritmica gioca un ruolo chiave per poter comprendere i modelli di ascolto di quanti utilizzano una piattaforma musicale».
Come funziona esattamente un algoritmo?
«Gli algoritmi possono essere definiti come un insieme di azioni che realizzano calcoli ed elaborano dati sul modo in cui una persona interagisce con un servizio. Nel caso della musica, consente di capire cosa piace o non piace ad un fan. Le piattaforme poi forniscono brani e suggeriscono artisti in linea con quei “mi piace”».
A quali dati sono interessati gli algoritmi?
«Ogni dettaglio dell’esperienza di ascolto di un utente all’interno di una piattaforma. Si ottiene così una formula matematica che racchiude un preciso profilo di utente e il suo modello di ascolto. Per modelli si intende l’insieme di generi musicali preferiti, orari e durata degli ascolti, persino il luogo in cui avvengono».
Oltre ai gusti musicali, l’algoritmo utilizza dunque anche informazioni sulla geolocalizzazione e sugli strumenti attraverso i quali l’utente accede alla piattaforma?
«Sì, vengono assunti anche dati sulla geolocalizazione e sugli strumenti di ascolto. Il servizio Flow di Deezer offre una colonna sonora personalizzata che intreccia i dati algoritmici e le proposte di un esperto musicale. Stiamo lavorando per rendere possibile l’adattamento momento per momento della playlist proprio sulla base del luogo in cui la sequenza di brani viene ascoltata».
Quali criteri utilizza l’algoritmo per proporre musica all’ascoltatore?
«Sulla base di gusti e abitudini dell’utilizzatore può suggerire musica che l’ascoltatore già conosce o nuova musica che risponde al suo modello o che potrebbe rientrare nei suoi gusti futuri».
Ma è mai accaduto che un algoritmo sia rimasto vittima di un baco?
«Gli algoritmi vengono generati né più e né meno come parti dei programmi per computer. E nonostante essi vengano ampiamente testati prima di essere messi in produzione, c’è sempre il rischio di un baco. Decisivo in questo caso è il tempo di intervento per porre rimedio al problema. In Deezer, oltre a sottoporre gli algoritmi a lunghi periodi di prova, sappiamo come aggirare il problema o offrire soluzioni nel caso ci sia evidenza dell’intromissione di un baco nel sistema».
Nel caso di un baco potrebbero risultare favoriti nelle playlist artisti o generi musicali al di là del reale gradimento o successo di pubblico.
«Nel caso di evidenza di un baco interveniamo prontamente. Del resto, rispetto a favorire artisti o generi, ciò è escluso dalle regole che è lo stesso algoritmo a creare».
Possiamo dire che, almeno per quanto riguarda i servizi di ascolto in streaming, la macchina ha superato l’uomo?
«Non lo credo affatto. Soltanto attraverso la combinazione delle capacità analitiche di una macchina e dei consigli musicali di un esperto si può raggiungere il risultato di soddisfare le esigenze di un ascoltatore».