Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  gennaio 24 Mercoledì calendario

La recessione della politica aiuta i populismi

Le economie e i mercati vanno meglio, è la politica che non sta tanto bene. E nel malessere della politica prendono forza populismi e nazionalismi, con il corollario rilevante di forme di protezionismo. Nel giorno dell’annuncio di nuovi dazi da parte dell’amministrazione Trump, è caduta come il cacio sui maccheroni la presentazione dello studio del Credit Suisse “The future of politics”, ieri a margine del World Economic Forum di Davos. I segnali di ripresa economica mondiale sono chiari ma è la politica che vive una sua recessione, indica in estrema sintesi lo studio. In futuro la politica globale è destinata in parte a cambiare, a causa dell’inversione della tendenza alla democratizzazione, dei pericoli di populismo e nazionalismo e degli stop alla globalizzazione, questo è quanto emerge ancora dallo studio per quel che riguarda le possibili prospettive.
«La democrazia liberale sta zoppicando», soffocata in un certo senso dalle proprie virtù, afferma l’ex premier britannico John Major, autore di una delle analisi che compongono lo studio della banca elvetica. I riflettori per la verità sono accesi in due direzioni: da una parte verso appunto populismi, nazionalismi e localismi, dall’altra verso le autocrazie, di cui è esempio rilevante la Cina. Tra le autocrazie vi sono però anche accettazioni di meccanismi del libero scambio economico, come nel caso cinese, mentre all’interno dei populismi spesso la tendenza protezionistica è spiccata.
«Il numero di nuove democrazie è rimasto lo stesso – ha detto Urs Rohner, presidente del cda di Credit Suisse, durante la presentazione – dalla metà degli anni Duemila. I mercati si sono mostrati resistenti a singoli eventi geopolitici, ma in futuro le conseguenze potrebbero essere più marcate». Le democrazie non appaiono in pericolo definitivo, certo, ma i Governi dovranno agire con efficacia e comunque faranno i conti anche al loro interno con insoddisfazioni e spinte populiste. C’è d’altronde una sorta di circolo non virtuoso, ha indicato Michael O’ Sullivan, chief investment officer della divisione Wealth Management di CS, tra il freno alla globalizzazione (la percentuale dei flussi commerciali sul Pil globale è sotto il picco del 2008) e le istanze nazionaliste; queste influiscono sul freno, che a sua volta le incoraggia.
O’ Sullivan ha sottolineato come trend di rilievo nei prossimi anni l’eccezionalismo regionale, l’azione dei Paesi emergenti per soddisfare le proprie popolazioni, l’affermarsi di obiettivi di sviluppo più equilibrati in molti Paesi. Su quest’ultimo punto è intervenuto durante la discussione l’economista americano Joseph Stiglitz, proponendo i temi che gli sono usuali sulle diseguaglianze da ridurre e sulla stagnazione dei salari da superare.
Una nota di ottimismo indiretto è venuta, per il campo europeo, dall’ex primo ministro italiano Mario Monti, che ha fatto notare come il singolare autosacrificio di Cameron e quindi la Brexit, possano avere tra i loro effetti anche una spinta verso una maggiore integrazione nell’Eurozona e nell’Unione europea. Colpito dalle chiusure politiche del mondo anglosassone nel difficile 2016, Monti si è detto ora meno pessimista.