Affari&Finanza, 22 gennaio 2018
Derivati, quel buco nero nel bilancio dello Stato
Che siano rischiosi, ormai lo hanno capito tutti contribuenti. Ma per capire cosa sia successo al portafoglio dei derivati dello Stato italiano nel 2017 bisognerà attendere la prossima relazione sul debito pubblico. Di certo si sa, ultimo dato disponibile, a quanto ammontava il loro valore di mercato alla fine del terzo trimestre dello scorso anno. La perdita potenziale per lo Stato era di 31,8 miliardi di euro su un nozionale di 135,13 miliardi. Un ipotetico salasso per le casse del Tesoro, anche se in diminuzione rispetto ai numeri di fine 2016, quando, su un portafoglio di 143,59 miliardi, il buco stimato era di 37,9 miliardi. Si conoscono le cifre, ma non si conoscono le controparti con cui i ministri dell’Economia e i dirigenti del Tesoro che si sono succeduti negli anni hanno stretto questi affari. Attualmente l’Italia sta pagando la scelta di aver trasformato, attraverso i derivati, i tassi variabili dei prestiti che ha contratto in tassi fissi. E siccome i tassi variabili, grazie alla politica monetaria della Bce di Mario Draghi, sono estremamente bassi, risulta che i tassi fissi sono più cari. Da qui il passivo. Ogni anno, però, qualche controparte del Tesoro presenta il conto e chiede la chiusura anticipata di un derivato, in virtù di qualche clausola contrattuale, ovviamente a suo favore. Il colpaccio lo hanno fatto alla Morgan Stanley che, tra il 2011 e il 2012, si è fatta versare dallo Stato italiano 3,1 miliardi di euro pubblici per chiudere quattro contratti derivati e rinegoziare due coperture sulle valute. Un pessimo affare per cui la Corte dei Conti ha contestato ai presunti colpevoli un danno allo Stato di 4,1 miliardi. Secondo i magistrati contabili, la banca sarebbe responsabile del 70% dei danni causati, mentre il restante 30% se lo suddividerebbero il direttore del debito pubblico, Maria Cannata, con un ruolo preponderante (un miliardo di euro), il suo predecessore Vincenzo La Via e gli ex direttori del Tesoro, Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli. Nel 2016, stando alla relazione sul debito pubblico, altre tre controparti hanno stappato lo spumante a seguito della chiusura di altrettanti derivati aperti con lo Stato italiano. La prima operazione si riferisce a uno swap da 2 miliardi di euro in scadenza a marzo 2016, ma che poteva tranquillamente essere rinnovato per altri 20 anni, se la banca non avesse fatto valere la clausola di chiusura anticipata (early termination option). Il codicillo del contratto prevedeva che a partire dal 2011, e successivamente ogni cinque anni in caso di peggioramento del rating dello Stato italiano, la banca avrebbe potuto chiedere la chiusura del contratto. Nel 2011 non si presentò l’occasione, ma dopo il declassamento del 2012, sì. Così la banca, cinque anni dopo, nel 2016, ha presentato il conto, incassando in una sola volta 1,017 miliardi di euro. Sul nome della banca vige “il segreto di Stato”, così come non si conoscono le altre due controparti ( magari sono le stesse) con cui sempre nel 2016 lo Stato Italiano ha deciso di chiudere dei derivati per aprirne degli altri ritenuti più convenienti. In questo caso, la prima mossa sembra averla fatta il Tesoro, ma il conto è stato altrettanto salato. Il Tesoro, sotto la guida di Pier Carlo Padoan e con la regia di Cannata, ha riacquistato un derivato (una swaption) esercitabile nel 2016 che presentava un mark to market negativo. E contestualmente ne ha attivato un altro con le medesime caratteristiche ad eccezione del tasso fisso a pagare per il Tesoro, che è stato ridotto di 130 punti base. Il giochetto è costato allo Stato 300 milioni di euro che – si giustifica il Mef – è pari «alla metà di quello che si sarebbe verificato in caso di non intervento». L’altra ristrutturazione riguarda una receiver swaption con nozionale pari a 4 miliardi di euro esercitabile sempre nel 2016. L’esercizio dell’opzione avrebbe generato un costo contabile per lo Stato di un miliardo di euro. Il Tesoro ha deciso di intervenire per ridurre i danni, chiedendo e ottenendo dalla banca di sostituire l’opzione con una nuova operazione: un interest rate swap trentennale da 4 miliardi abbinato a una opzione payer. Col nuovo derivato il Tesoro riceve semestralmente l’euribor 6 mesi (che attualmente è negativo e quindi in pratica non prende nulla) e paga un tasso fisso dell’1,11646%. A questo contratto è stata abbinato un altro derivato (payer swaption) che consente alla banca di cancellare lo swap al sesto anno (2022), ovvero di azzerare lo scambio di tassi tra la banca e il Tesoro. Il tutto però non è stato a costo zero, perché il premio della nuova swaption venduta alla banca non è stato sufficiente per garantire il riacquisto totale di quella originariamente in portafoglio. Il buco è stato di 500 milioni di euro, invece di un miliardo, che lo Stato si è impegnato a versare alla controparte in cinque rate dal 2016 al 2020, senza nessun interesse aggiuntivo. A conti fatti, il 2016 non è stato poi tanto diverso dal 2012: sono stati pagati coi soldi dei contribuenti ben 1,8 miliardi per chiudere tre derivati contro i 3,1 miliardi pagati a Morgan per uscire da quattro derivati e due coperture sulle valute.